Scopriamo molte sfaccettature di una persona, scopriamo insomma che c’è sempre un essere umano dietro ciascuno di noi, anche dietro quei volti televisivi che ci sembrano inscalfibili. Scopriamo che Del Debbio è stato prima di tutto un bambino che andava al bar del paesello, poi adolescente, che ha frequentato il seminario per circa due anni, per poi prendere altre strade.
E’ un libro scritto in tono schietto, quasi colloquiale, ci racconta esperienze e riflessioni.
L’autore stesso definisce cosi il suo “libricino”: “Questo libro è il racconto delle esperienze che ho fatto e delle riflessioni che hanno suscitato. Il racconto di come ho cercato di diventare ciò che sono: scoprirlo prima e diventarlo poi”.
L’ultimo capitolo del libro in un certo senso è il più importante perché chiude un cerchio, fornisce un punto di arrivo, un risultato di tutta la ricerca costituita dalla vita di una persona, e quel punto di arrivo pare che sia l'amore per tutto quello che si fa, per cui l’autore può dire: “L’amore non so cos’è, ma so quando c’è”. Una frase che ha una miriade di applicazioni nella vita di chiunque probabilmente.
L’autore
Estratti significativi per comprendere lo spirito del libro
- Nessuno di noi parte da zero, come se fosse una tabula rasa, tutti noi, viceversa, siamo l’intreccio che siamo, che ci costituisce.Possiamo decidere di affrancarcene, di modificarlo, di arricchirlo, di farne patrimonio, di considerarlo la più felice sorte o la peggiore - quando riusciamo a rendercene conto e non la consideriamo, invece, “normale”.
- Scrive il filosofo esistenzialista tedesco Karl Jaspers che “nessuno è fatto eterno, nessuna istituzione resiste stabilmente nel tempo; alla fine c’è il naufragio”. Questo fu per me la morte di mio padre.
- La prima legge che si doveva imparare al bar era non prendersela per le battute che ti arrivavano addosso da ogni parte, come quelle piogge di agosto forti e improvvise che non ti danno il tempo di ripararti. O impari a rispondere a tono o sei fuori.
- Quelli furono anni di grande riflessione e preghiera, ma soprattutto meditazione. Don Adriano ci abituò piano piano a imparare a meditare.
- In seminario si accese in me anche la passione per lo studio, che fino ad allora avevo praticato con diligenza ma senza quel vero e proprio ardore che provai da lì in poi.
- Qual è il cuore dell’economia? È semplicissimo: consiste nello scambio tra le famiglie e le imprese. […] Molto ci sarebbe da dire su come viene insegnata l’economia ma non è questa la sede per farlo. Spesso lo studio è inutilmente astratto, univocamente formalistico, raramente diventa uno strumento di interpretazione e di lettura dell’economia reale.
- Una volta, a Milano, al mattino avevo sostenuto l’esame di Storia della filosofia antica, un esamone, e la sera mentre servivo la pizza mi trovai al tavolo il professore con il quale avevo sostenuto l’esame […].
Giudizi personali
Si capisce che dietro questo libro c'è una persona onesta, anche se non è facile spiegare il perché. Bisogna leggere il libro per capire. Un libro abbastanza interessante in alcuni punti, meno in altri. Ci sono degli elementi anche molto buoni, soprattutto dove si parla della dimensione dell’Assurdo nella vita, un tema che l’autore riesce a sviscerare piuttosto bene perché evidentemente lo conosce, anche grazie ai suoi studi in filosofia, in particolare dei filosofi dell’esistenzialismo.
Molti dei concetti espressi sono piuttosto banali, per fare alcuni esempi: che la vita è un intreccio e non una mera successione di fatti, che bisogna cercare di essere felici con poco, che “in ogni persona c’è una miniera” (prendendo come esempio perfetto gli invalidi, che hanno un mare di emozioni dentro di sé che molto spesso non viene riconosciuto), che insegnando una materia la si impara anche (posso confermarlo, ma del resto è un’ovvietà!). Sono tutte considerazioni piuttosto banali o ovvie, che a parer mio non insegnano niente ad una persona intelligente, perché queste cose già le intuisce. Il problema allora si pone: per quale pubblico è scritto questo libro? Non so la risposta purtroppo.
Il libro mi è sembrato piuttosto ripetitivo in alcuni momenti, ripetitiva soprattutto è l’ossessione dell’autore di sottolineare sempre di aver imparato qualcosa da ogni esperienza, di aver tratto il meglio, di aver ottenuto questa o quell’altra cosa. Un arrivismo malcelato insomma, che si rivela tra le parole apparentemente umili. Il vanto tipico di chi è arrivato da qualche parte partendo dal basso, come viene esplicitamente dichiarato a più riprese. Ho infatti letto tra le righe una umiltà che non è del tutto sincera, poiché il libro in realtà non fa altro che dare lezioni di vita più o meno velatamente, pur dichiarandosi sempre alla ricerca, mai “arrivato”. Non che dal titolo ci si potesse aspettare qualcosa di molto diverso, ma il punto è che alcune di queste convinzioni vengono messe giù come universali, come certezze. O forse sono io ad essere condizionato dai miei pregiudizi e dal senso quasi di fastidio che ho sempre provato per chi dà lezioni di vita, anche per via di esperienze personali con quel tipo di persone. È anche vero che qualche certezza forse bisogna averla nella vita...!
A più riprese parla anche del valore della semplicità, intesa sia come sentimenti semplici che come saper rendere semplici i concetti, senza complicare il pane quando non ce n’è motivo. Su questo punto non posso che essere d’accordo con Del Debbio: quante persone ci sono in giro che fanno del complicare il pane la propria bandiera, e spesso perfino la propria professione? Anche la semplicità dei sentimenti conta molto in effetti: avere radici forti che affondano in buoni sentimenti trasmessi dalla famiglia è sicuramente un dono che i più fortunati ricevono. L'autore sottolinea l'importanza di essere cresciuto in una famiglia solida, dove ci si voleva bene e si affrontavano le difficoltà con ottimismo. Gli altri meno fortunati possono farsi quelle radici forti con qualche fatica in più, lottando e qualche volta vincendo.
Tra populismo e realtà
Paolo Del Debbio è stato accusato di populismo per via del suo modo di fare televisione (che a volte è leggermente alla Giletti per intenderci, ossia la trasmissione viene condotta invitando ospiti e facendoli scannare nell'arena nel caso Giletti, mentre nel caso di Del Debbio facendoli interloquire direttamente con “persone del popolo” collegate con lo studio, che puntualmente insultano il malcapitato politico o intellettuale di turno). In effetti un certo populismo c'è...
In questo libro l’autore cerca di difendersi da tale accusa rispondendo qualcosa come “ne vado fiero”. Il problema è che così non si è affatto difeso dall’accusa: non ha dato motivazioni del perché non andrebbe considerato populista. Dire che vai fiero di essere un omicida non sarebbe una buona difesa contro un’accusa di omicidio.
Una seconda difesa tentata dal conduttore è che "fare televisione è diverso dal fare politica", poiché secondo Del Debbio il vero populismo sarebbe quello dei politici, mentre chi fa televisione sarebbe autorizzato in qualche modo ad essere vicino alla pancia del popolo, anzi lo pone quasi come un dovere che un conduttore ha nei confronti della gente. E poi la televisione è spettacolo, è fare ascolti, dunque va benissimo essere populisti nel senso di far parlare tutti e fare un poco di "caciara", questo sembra volerci dire. Anche questa difesa però fa un po' acqua da tutte le parti, perché sarebbe come dire che siccome in giro ci sono moltissimi pessimi libri (definiti comunemente "spazzatura") allora anche noi siamo autorizzati a contribuire alla produzione di spazzatura letteraria, perché così siamo vicini al popolo. Beh insomma, questione di punti di vista, ma di sicuro tanti potrebbero storcere il naso e in ogni caso rimane il problema.
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