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Autorità e valore di un’opera narrativa


In questo articolo/post vorrei parlarvi di qualcosa che bene o male volteggia fra i pensieri di chi decida di scrivere, soprattutto narrativa, ma che può essere esteso all’intero ambito della creazione artistica: un testo – o un’opera narrativa – ha un valore artistico intrinseco?

La maggior parte di noi, sulla scia di quanto comunemente accettato come ragionevole verità, risponderà in maniera saldamente affermativa a questa domanda – dopotutto vi è un numero sterminato di esempi che confermano una tale posizione teorica, sia nella letteratura che in qualsiasi ramo di ciò che viene definito arte; senza che si abbiano alle spalle anni di studi nel campo il senso comune suggerisce che un’opera narrativa “nasce” recando in sé o meno un valore letterario-artistico presente sin dall’origine, un po’ come una caratteristica biologica inestricabilmente codificata nel DNA. E una tale posizione è anche spesso mantenuta dalla stragrande maggioranza degli scrittori emergenti/esordienti i quali, ignorati dal mondo editoriale e dal pubblico, si consolano al pensiero che i propri scritti abbiano nonostante tutto di per sé un valore letterario a priori che il Mondo non è stato in grado di comprendere e apprezzare. 

Ma siamo proprio sicuri che sia effettivamente così?

Prima di giungere al nocciolo della questione è forse meglio fare un rapido excursus esplorativo sui termini della questione.

Come si calcola il valore artistico di un’opera narrativa

Il valore letterario di un testo narrativo – o di un’opera d’arte – non è determinabile da nessuna metodologia scientifica: non esistono né una “scienza della letteratura”, né tantomeno una “scienza dell’arte” che possano offrire attraverso formulazioni algoritmiche e/o test ripetibili e oggettivi e/o buoni e vecchi calcoli matematici un rassicurante numero che misuri e quindi indichi in maniera assoluta e incontrovertibile come e quanto valga una creazione artistica rapportata a un’ipotetica e immediatamente comprensibile scala graduata – come per la temperatura, la magnitudo di un evento sismico, o l’ampiezza di un’onda elettromagnetica; l’unico strumento di cui disponiamo per stabilire il valore di una creazione nell’ambito umano-esclusivamente-umano dell’arte, e in particolare di ciò che attiene al letterario, è soltanto quella che si definisce come “critica”. 

Ma che cosa si intende propriamente con “critica”?

Uno sguardo al solido vocabolario Treccani può esserci d’aiuto:

Critica, s. f. [dal gr. κριτική (τέχνη) «arte del giudicare», femm. sostantivato dell’agg. κριτικός: v. critico].
– 1. a. Facoltà intellettuale che rende capaci di esaminare e valutare gli uomini nel loro operato e il risultato o i risultati della loro attività per scegliere, selezionare, distinguere il vero dal falso, il certo dal probabile, il bello dal meno bello o dal brutto, il buono dal cattivo o dal meno buono, ecc.: avere capacità di critica. In filosofia, parte della logica che si occupa del giudizio. In partic., nella filosofia di Kant, il processo attraverso il quale la ragione umana prende coscienza dei propri limiti. 
b. Complesso delle indagini volte a conoscere e a valutare, sulla base di teorie e metodologie diverse, i vari elementi che consentono la formulazione di giudizi sulle opere dell’ingegno umano; in partic., specificando il campo dell’indagine: cartistica o cd’artecletterariaesteticamusicaleteatralecinematograficacfilosoficastoricapoliticacdantescaleonardescaverdianactestuale o del testo, studio comparativo di tutta la tradizione manoscritta o a stampa di un dato testo, al fine di ricostruire fin dove è possibile la lezione originaria; cdelle fonti, esame dei documenti e delle testimonianze relativi a un determinato personaggio o evento storico; c. delle varianti, studio delle correzioni e dei cambiamenti eseguiti da un autore sul proprio testo. 
c. Per antonomasia, con uso assol., critica esercitata sugli scrittori e sulle opere letterarie: avere attitudine alla c. (o disposizione per la critica). 
– 2. L’insieme dei critici e dei loro scritti: il film fu stroncato dalla c.; la cha accolto favorevolmente il nuovo librocmilitante, esercitata per lo più su quotidiani e avente generalmente per argomento la letteratura o l’arte contemporanea. Con partic. riferimento storico-letterario sia alle opere sia alle diverse impostazioni e metodologie: la cdell’Ottocentocromanticacidealisticala cermetica
– 3. Scritto nel quale si esamina e si giudica un’opera letteraria, artistica o scientifica; il modo stesso con cui si giudicacspassionataacutafavorevoleostilepedantesca.
[…]

Come si può vedere dalla definizione treccaniana (le sottolineature sono mie), l’attività critica, semplificando il discorso, si “riduce” essenzialmente alla formulazione di un giudizio; e qualsiasi giudizio, com’è evidente, viene formulato da parte di qualcuno; e codesto qualcuno è solitamente – ma non per forza – il critico, un individuo dotato di un ponderoso bagaglio di studi e di un’approfondita conoscenza della teoria, delle tecniche, degli strumenti valutativi necessari a emettere una valutazione critica che sia quanto più rigorosamente condotta e oggettiva possibile – e vi assicuro che vi è di che logorarsi le diottrie e le meningi in questo campo sia per la complessità delle diverse posizioni teoriche sviluppate che per la bruta quantità di materiale da visionare e assimilare (per chi voglia approfondire con qualcosa di più complesso che per motivi di spazio e di fruibilità non è il caso che riporti qui, l’Enciclopedia Treccani online ha anche un’ampia voce dedicata alla Critica letteraria redatta da René Wellek, pioniere della letteratura comparata e teorico fondamentale della New Criticism; per quanto concerne il presente post mi rifarò a quanto riportato sopra).
Chiunque può scrivere amatorialmente una recensione di un testo o di un’opera letteraria – o di qualsiasi espressione artistica – ma essa rimarrà unicamente un’opinione priva di qualsiasi autorità che possa conferire valore all’oggetto giudicato; un milione di recensioni positive da parte di utenti online di, mettiamo, un romanzo fantasy autopubblicato sicuramente indicherà un alto tasso di gradimento popolare, ma non dirà nulla rispetto al valore artistico-letterario dell’opera, almeno fino a che essa non sarà vagliata dagli acuminati occhi di uno o più critici di professione.
E qui forse occorre fare un altro distinguo: il successo di un’opera narrativa è del tutto irrilevante ai fini del giudizio rispetto al valore della stessa; e il valore economico (a cui segretamente molti wannabe writers rivolgeranno le proprie speranze), strettamente connesso a popolarità/successo/vendite, viene valutato secondo parametri che, realisticamente, ed è triste dirlo, poco o niente hanno a che vedere con il valore artistico-letterario. 

Non ci credete?

Prendiamo il re del brivido, Stephen King, lo scrittore di più alte vendite nella storia umana: verrebbe da pensare che un tale successo suggerisca che in qualche modo i suoi libri, magari non proprio tutti, ma alcuni dei suoi libri posseggano un valore letterario – dopotutto se così tante persone lo leggono deve esserci qualcosa di valore artistico assoluto nei suoi romanzi, no? Provate a fare questa domanda a un critico e osservatene la reazione: i suoi testi, pur dall’alto di milioni di copie vendute, non hanno, secondo la critica, il benché minimo valore artistico-letterario (anche se il racconto lungo Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank a mio avviso possiede degli elementi per i quali potrebbe essere ammesso nelle sale dorate di ciò che è universalmente considerato come Arte e Letteratura) pur essendo quasi tutti godibilissimi da leggere grazie alla pura e unica capacità di narrare dell’autore. E un discorso simile può valere anche per altri autori di bestseller sia esteri che nostrani.
Il numero di copie vendute, e il conseguente volume di denaro smosso da un’opera non conferiscono alla stessa alcun valore artistico universale (fatto che forse, potranno pensare pragmaticamente alcuni, dall’alto dei cospicui guadagni da bestseller, diviene del tutto trascurabile quanto le proverbiali discettazioni sul sesso degli angeli).
L’autorità della critica – e dei critici – espressa nella forma di un giudizio valutativo è l'unico elemento che determinerà di fronte al mondo se un’opera abbia o meno un valore artistico e, grossomodo, anche “quanto” valore artistico abbia. 

Tutto chiaro e lineare fino a qui, no?

Il valore di un’opera narrativa

Tornando alla domanda posta in principio: un testo narrativo ha un valore intrinseco? 

La risposta, temo, è un sonoro no
Il valore di un testo o un’opera narrativa nasce unicamente nel momento in cui un altro essere umano, dotato della necessaria autorità in merito, decreterà che detto testo o opera ce l’abbiano un valore; non importa se quel testo o opera esistano da prima della manifestazione del giudizio critico; il valore in e di esso acquisirà esistenza soltanto nel momento in cui verrà formulato e fino ad allora in termini letterario-artistici non varrà nulla. 
Provate a fare un piccolo esperimento mentale: immaginate che Shakespeare invece di aver vissuto nella Londra brulicante di cultura del XVII sec. si fosse per ipotesi recluso à la Ted Kaczynski in un capanno in qualche località remota nei boschi inglesi e lì avesse composto la sua per noi immortale opera omnia senza mai renderla pubblica o mostrarla a nessuno, e che alla sua morte tutti i suoi scritti, di cui questo mondo ipotetico mondo ignora l’esistenza, semplicemente fossero finiti preda del Disfacimento e della Decomposizione delle cose lasciate alla pura entropia divenendo illeggibili, distrutti, scomparsi; ebbene, in questo scenario, queste opere completamente sconosciute al mondo avrebbero un qualche valore? 
Di nuovo la risposta è no, poiché per il mondo – per noi – è come se non fossero mai esistite; non sono mai entrate in relazione con altri esseri umani, e un aspetto fondamentale di ciò che è Letteratura è l’essere “relazione” – nelle parole di Sartre la letteratura «si fa nel linguaggio ma non è mai data nel linguaggio; essa è un rapporto fra gli uomini ed un appello alla loro libertà». Certamente, il relazionarsi con il pubblico/Mondo non fa di un testo un'opera elevabile a creazione artistica/letteraria nel caso in cui esso sia privo di ciò che, secondo l'elaborazione del linguista e semiologo Roman Jackobson, sia un orientamento verso la "funzione poetica" del linguaggio (qualche cenno di approfondimento è disponibile qui), la quale, in parole povere, non è altro che la capacità di detto testo di riferirsi, linguisticamente, esteticamente e intertestualmente, a un "canone", sia esso già esistente  anche nel caso di una "rottura" consapevole (si pensi ai vari postmodernisti) – o creato dal testo stesso; eppure un testo che abbia tutte queste caratteristiche ma che non si relazioni in alcun modo con il Mondo, cioè che rimanga letto esclusivamente dal proprio autore, avrà lo stesso valore di una lista della spesa, un appunto scarabocchiato a margine di una telefonata, una pagina inaccessibile di un diario privato e segreto, cioè nullo. Senza il relazionarsi con il Mondo, ovverosia il giudizio degli Altri, qualsiasi testo non potrà mai avere la possibilità di veder decretato il proprio eventuale valore artistico-letterario, pertanto non ne avrà alcuno
Prendiamo ora come esempio, senza che si debba ricorrere a scenari storici alternativi puramente ipotetici, ciò che è successo ad alcuni scrittori universalmente noti.
Prendiamo Philip K. Dick: durante la sua carriera in vita i suoi testi sono stati ampiamente snobbati dalla critica e considerati come spazzatura fantascientifica, roba men che di serie B, destinata a una nicchia di pubblico decisamente distante nonché distinta dalla Letteratura – anche se nel 1982 l'intuizione di un semisconosciuto Ridley Scott decise di trarre un certo film dal suo romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? che avrebbe portato la popolarità dello scrittore ai vertici della coscienza collettiva influenzandone altresì profondamente l’immaginario (Dick non potè assistere a nulla di tutto ciò poiché morì prima della fine delle riprese di Blade runner); oggi, anche e soprattutto grazie a un gran numero di studi critici, è considerato ormai un caposaldo della Letteratura le cui opere possono tranquillamente essere assimilate ai Classici della letteratura contemporanea.
Pensiamo anche, più geograficamente e culturalmente vicino a noi, a Italo Svevo: i suoi romanzi Una vita e Senilità vennero del tutto ignorati dai critici al momento della pubblicazione nel 1892 e 1898, e persino La coscienza di Zeno del 1923 rimase nell’indifferenza generale fino al 1925 quando Joyce e Montale (non critici di professione ma scrittori dotati dello stesso tipo di autorità valutativa) ne proclamarono le qualità artistico-letterarie che verranno riconosciute nel 1926 e definitivamente celebrate a Parigi nel 1928, anno in cui morirà per le conseguenze di un incidente stradale.
A parte il destino tragico e beffardo che li accomuna, le opere di entrambi questi scrittori hanno acquisito valore letterario unicamente quando figure dotate dell’appropriata autorità hanno decretato che quel valore ci fosse, creandolo dinnanzi al Mondo – allo stesso e identico modo in cui la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (discendente diretta da quella francese del 1789) creò dinnanzi al Mondo da quel momento in ciascun individuo tali diritti stabilendone la validità tramite risoluzione ufficiale entro l’autorità dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. 
Capite ora in che modo il valore di un'opera non sia intrinseco quanto nelle mani, anzi nei giudizi dei critici dotati di un'autorità in grado di decretare e conferire tale valore, manifestandolo per così dire dal nulla agli occhi degli individui che compongono il pubblico e il Mondo come potrebbe fare un mago. 

Autorità e potere del giudizio critico nelle mani di un’inevitabile soggettività 

Vi è tuttavia un grosso, elefante-nella-stanzesco “ma” in questo processo brevemente descritto: come è facile intuire a questo punto, quel qualcuno che determinerà il valore artistico di un’opera – ossia il critico (donna o uomo che sia) – sarà comunque, in tutti gli inevitabili i pregi e i difetti, nonostante tutta la conoscenza e la cultura e il rigore applicati in vista dell’oggettività, un essere umano, un soggetto.
Poiché il critico determina il valore di un’opera letteraria dinnanzi al mondo, egli/ella ha, di conseguenza, sia l’autorità che il potere di determinare le sorti della stessa tramite il proprio giudizio. Si tratta di una responsabilità enorme e cruciale, sia nei confronti di quella che potremmo definire come Cultura Mondiale, sia soprattutto nei confronti dell’autore dell’opera giudicata dal cui giudizio può dipendere il dischiudersi di nuove possibilità per la propria esistenza – le opere di un anonimo nessuno confuso nella massa consacrate dalla critica possono eventualmente aprire la via per una carriera dedicata che permetta di sganciarsi dalle “catene” del lavoro ordinario pro-sopravvivenza. Potete capire come in questo senso il giudizio critico sia davvero cruciale per l’autore.
Per quanto si dica e si affermi che ogni giudizio sia il più oggettivo possibile ciò però semplicemente non è vero: in quanto umano, individuo e soggetto, il critico darà un giudizio che, nonostante il filtraggio fra migliaia di pagine di teoria critica condensate nella propria testa, sarà inevitabilmente soggettivo, influenzato e parziale. Non è un’accusa o una polemica questa: molto più prosaicamente è come stanno le cose.
Il pur immenso bagaglio teorico del critico verrà sempre influenzato da elementi che hanno a che fare con il suo essere fatto di carne, sangue, sentimenti ed emozioni, preferenze e ricordi – oltre che da una certa consapevolezza dell’immagine pubblica proiettata che deve mantenersi congrua con se stessa e con il “ruolo” magari costruitosi negli anni dal quale non può permettersi di deviare troppo (a meno che non sia una specie di critico-superstar che come tante superstar può più o meno permettersi di fare e dire ciò che gli pare – ma ciò è talmente raro da non essere de facto esistente; e anche le superstar, sebbene possano permettersi alcuni "colpi di testa", per la questione ruolo-e-immagine-proiettata-socialmente, non possono comunque permettersene troppi, pena la caduta nell'etichettatura della macchietta di eccentrico, priva di qualsivoglia autorità e destinata a un celebre isolamento).
Non sto insinuando che questo avvenga in malafede, ma più banalmente che avvenga come normale espressione di ciò che è essere un fallibile, finito, limitato essere umano in rapporto con altri esseri umani e le loro creazioni – essere umano che per direttiva primaria psicobiologica intrinseca di autoconservazione cercherà di operare di conseguenza – magari adeguandosi a ciò che di momento storico in momento storico verrà percepito e approvato dalla maggioranza come canone/serie di caratteristiche più preferibili e accettabili ergo consacrabili come Arte/Letteratura. Chiunque svolga un lavoro di qualsiasi genere avrà dovuto in qualche occasione “piegarsi” a qualcosa, scendere a compromessi con se stesso, turarsi il naso ed eseguire in contrasto con la propria coscienza – semplicemente per sopravvivere nel e conservare il proprio impiego. E ciò vale non solo per gli autori che sperano nel giudizio dei critici ma anche per i critici che formulano tali giudizi per mestiere. 
Questo può essere di qualche consolazione per l’aspirante/emergente/esordiente scrittore misconosciuto?
Sì e no. Forse. Onestamente non lo so.

Due parole conclusive a chi si dedica alla scrittura

La sola certezza risiede – e parrà strano e contraddittorio – nella creazione, nel testo, nell’opera. E ciò che un aspirante/emergente/ecc. deve imparare a fare, oltre ovviamente a scrivere nella maniera “migliore” possibile, è sviluppare il proprio senso e acume critici, o meglio autocritici rispetto ai propri testi, poiché il primo giudizio – pur senza autorità – è il proprio; e quando si sia abbastanza lucidi e onesti con se stessi si sarà in grado di sapere se un’opera possa avere almeno la possibilità di incontrare i favori dei critici di mestiere e/o del pubblico, ovverosia se il testo sarà in grado di mettersi in relazione comunicativa autentica e profonda con un altro essere umano – che è ciò che avviene leggendo un libro dal valore artistico-letterario universalmente riconosciuto il quale riesce a dirci cose su noi stessi e il mondo che forse da soli non saremmo stati in grado di vedere né capire.
Ma questo scrivere e autoanalizzare i propri testi non è sufficiente; limitandovi a ciò rischiereste di fare la fine dell’ipotetico Shakespeare-unabomber descritto più sopra, slegati dal mondo e con dei testi non-esistenti per quanto probabilmente buoni. Per questa ragione il passo successivo è quello di diffondere e far conoscere – con criterio e intelligenza, ovviamente – le vostre opere, così che entrino in relazione con gli Altri che costituiscono il Mondo entro e per il quale esse potrebbero essere giudicate di valore. Per la stragrande maggioranza di chi abbia un testo realmente valido in mano ciò sarà comunque un processo lungo ed estenuante – in qualche caso potrebbe travalicare la durata della vita dell’autore –, irto di intoppi, fatiche e delusioni, oltre che soggetto anche ai capricci di ciò che denominiamo “caso” o “fortuna” su cui non abbiamo alcuna facoltà d’intervento. 
Un’opera letteraria vive una vita distinta da quella dell’autore, così come un figlio vive un’esistenza e ha in serbo un destino che sono propri e separati da quelli del padre.
Mi piace pensare però che un’opera genuinamente valida riuscirà a trovare la propria strada verso quell’immortalità nella coscienza collettiva culturale umana, magari con difficoltà e tribolazioni e dopo anni e anni, ma ci riuscirà.
Una simile prospettiva probabilmente non è di alcun conforto, eppure vi ripeto: confidate nella scrittura; e più di ogni altra cosa: scrivete senza brame né secondi fini, soprattutto economici; ascoltate la polifonia del mondo e fatela filtrare in voi per il prisma del vostro spirito e da lì sul foglio (o sullo schermo). Allora sarete sulla buona strada per creare qualcosa che sia Arte.   


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