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Perché si scrive? Riflessioni incomplete in cerca del cuore pulsante dell’atto scrittorio

Preambolo introduttivo sull’autore da parte dell’autore 

Chi vi scrive – la voce disincarnata di cui ciascuno di voi lettori decodificherà i segni in questo spazio creandosi un’immagine mentale a partire proprio dalla decodifica dei segni stessi – non è, nel sociale e vociante mondo, nessuno; io (vi è sempre un “io” dietro ogni segno scritto/tracciato) non sono un’autorità in nessuno dei campi attinenti al variegato e complesso e ramificato sapere umano: non sono in possesso di nessun “oggetto sociale” ossia di nessun “Atto Iscritto” (dalla teoria della documentalità di Maurizio Ferraris) socialmente riconosciuto (diploma/laurea/certificato/ecc.) che attesti e convalidi al consesso sociale il mio essere abilitato a parlare/scrivere in maniera autorevole (= all’ombra dell’autorità emanata dall’Atto Iscritto normativamente valido secondo le regole del consesso sociale di riferimento) di checchessia: l’unico attestato che in questo senso posso presentare è un diploma di maturità scientifica rilasciatomi nel lontano e brumoso 2003; oltre a ciò – poiché ogni lettore ha ‘fame’ di costruirsi un’immagine mentale della voce che accompagna i segni che man mano decodifica nella propria interiorità tramite etichette e parole che cataloghino e definiscano e delimitino rendendo l’erratico afferrabile e maneggiabile entro dei canoni di controllo interiori che donano ordine alle spire altrimenti caotiche del Mondo – dirò che ho frequentato anche la facoltà di Filosofia all’università senza portare a termine gli studi, ho fatto il manovale edile, l’operaio assemblatore e magazziniere, l’impiegato di (davvero) basso livello, occasionalmente il cameriere, il pulitore di stalle, il facchino; altre informazioni miscellanee: sono antropologicamente di tipo caucasico/caucasoide dall’origine etnica mista apulo-careliana, nato a Helsinki e cresciuto nel nord-ovest italiano in cui attualmente risiedo; il mio indice di massa corporeo è 30,9;  ho realizzato e autopubblicato un libro, ma non sono assolutamente uno scrittore né mi azzarderei mai a considerarmi tale; nonostante la stazza le mie fattezze morfologiche paiono normali-anonime, pur se disarmoniche e ben lontane dall’armonia vitruviana; subisco da tempo gli effetti di una canizie precoce grazie a un dono genetico non richiesto; sono sposato, nella commistione di felicità e difficoltà che caratterizza l’esistenza condivisa ai piani bassi della piramide sociale; sono trilingue dalla nascita, ma tale fatto non ha alcuna rilevanza né significato apprezzabili; non riesco a mangiare i cachi; condivido la metratura piana dell’abitazione in cui risiedo con la mia coniuge e due esemplari femmine di Felis silvestris catus; le mie iridi variano erraticamente dal marrone al verde senza un motivo discernibile; ho sviluppato una dipendenza per l’ascolto della musica e per il pane fatto in casa da mia moglie; porto la barba poiché sono privo di una linea mandibolare apprezzabile o comunque virile. Lungo il percorso socialmente visibile e giudicabile da docile elemento statistico senza volto né nome che chiamo vita/esistenza tutt’ora in corso ho avuto la fortuna di aver avuto la possibilità e il desiderio di leggere molto di tutto (la quantità di roba che ho letto è inversamente proporzionale al numero di relazioni sentimentali e di esperienze idiotiche peri-morte adolescenziali che ho avuto); sono stato molto affamato di parole scritte sin da quando tormentavo i miei genitori con rintoccanti e interminabili “perché?”, e ho scritto secondo quantità e intensità alterne e costante frammentarietà più o meno da allora; come molti che a un certo punto si dedichino in maniera organizzata e direzionata alla scrittura ho letto e scritto e continuo a farlo, ma sempre in qualità di dilettante, ossia per diletto, svago, (cocciuto) interesse personale non obbligatorio né istituzionalizzato; un eterno e mero hobby reso eloquente da certe alzate d’occhi di mia moglie quando tocchi a me espletare la corvé di comuni operazioni collaterali al mantenimento di un focolare domestico e mi trovi invece chino e chiuso su qualche pagina, che sia stata scritta da me o da chi effettivamente sia – o sia stato – scrittore.
Alla luce di queste considerazioni e di questi fattoidi sul “me” dietro questa voce disincarnata che si sta rivolgendo a voi sento il dovere di premettere, sottolineare e ribadire che tutto ciò che affermerò come ospite in questa sede sarà nient’altro che la mia personale opinione, una dòxa ben lontana da qualsiasi pretesa di essere epistème (conoscenza certa e incontrovertibile), condivisibile o meno, e priva di qualsiasi pretesa di Verità. I miei post/articoli non saranno lezioni né insegnamenti impartiti dall’alto, bensì saranno soltanto pensieri, cortocircuiti e conflagrazioni di nozioni, suggerimenti, a volte provocazioni, dubbi e interrogativi fluttuanti all’interno del casino che chiamo affettuosamente testa; saranno, nelle mie intenzioni limitate dalle mie capacità, brandelli sommariamente organizzati della mia interiorità individuale posti sul cammino di voi lettori nel tentativo di stabilire, se ne sarò capace, un fugace contatto, una – mi auguro – breve autentica comunicazione fra esseri umani da esseri umani spogliati di ogni orpello accessoriale definitorio che ne dissimuli e nasconda ciò che si potrebbe definire essenza individuale. Come una chiacchierata al bar al termine di una giornata di lavoro, allentata la cravatta, tirato il fiato, rimossa la maschera.

Perché scrivere?

Come spesso accade fra i dilettanti, sorretti da uno spirito temerario con venature masochiste, ho deciso di cominciare il mio primo articolo/post partendo direttamente dalla domanda apparentemente più semplice e probabilmente oziosa e forse banale che aleggia attorno a tutti i discorsi/trattati/manuali/dissertazioni/blog riguardanti l’atto della scrittura senza che però sia quasi mai offerta una risposta soddisfacente, ossia: perché si scrive?
Data la portata dell’argomento che ho deciso di affrontare, per evitare di fluttuare troppo in cieli iperuranici è bene che ancori in partenza il discorso a qualcosa di concreto e fattuale, e cosa vi è di più concreto se non una rassicurante manciata di numeri statistici?
Secondo i dati rilasciati dall’AIE (Associazione Italiana Editori) nel “rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2019” presentato alla Fiera internazionale del libro di Francoforte, sono state 4.972 le case editrici hanno pubblicato almeno un libro nel 2018; le stesse hanno pubblicato complessivamente 78.875 titoli cartacei; mentre gli e-book pubblicati sono stati 51.397, di cui ben 11.698 in forma di autopubblicazione (l’anglo-famigerato self-publishing); tali cifre sono assolutamente sbalorditive sia se considerate in maniera assoluta (piccolo esperimento mentale contestualizzatore: se, per assurdo, qualcuno decidesse di leggere entro dodici mesi di un anno non bisestile soltanto gli e-book autopubblicati, si ritroverebbe nella posizione di doversi consumare le diottrie su 32 titoli al giorno alimentato per via endovenosa) che, soprattutto, se filtrate attraverso i dati inclusi nello stesso rapporto riguardanti la lettura/i lettori: nei dodici mesi precedenti al 2018 ha letto almeno un libro o un e-book o ascoltato un audiolibro il 62% della popolazione nella fascia fra i 15 e i 75 anni d’età, cioè 28,2 milioni di persone; di queste, nello stesso arco temporale, solo il 41% ha letto almeno tre libri, e solo il 17% è giunto a leggere almeno un libro al mese (per chi fosse interessato a introiettare e macinare ulteriori dati statistici sull’argomento il rapporto completo è consultabile comodamente qui: https://www.primaonline.it/2019/10/16/295878/rapporto-aie-stato-editoria-italia-2019/ ). Bisogna considerare che queste cifre sulla produzione scrittoria non prendono in considerazione i testi redatti per siti web, blog, pagine/profili social, oltre ovviamente a tutta la scrittura che avviene in privato, siano manoscritti in eterno indefinito progress, pensieri, annotazioni personali, forme diaristiche e così via. Ciò che si evince da quanto sopra è, banalmente, che si scrive, perlomeno in Italia, davvero tanto. Si scrive in misura decisamente maggiore rispetto al consumo dei prodotti dell’atto scrittorio stesso, e tale asimmetria fattualmente constatata rende più significativo e necessario il (tentativo di) dare una qualche forma di risposta alla domanda posta sopra, la quale, come si può facilmente immaginare, sotto la superficie di apparente piana e bucolica semplicità nasconde implicazioni sicuramente più ponderose e complesse e centrali;
perciò, ripetendomi: perché scrivere?

Perché scrivere: ragioni di immediatezza pratica

Parafrasando l’adagio immortalato da Luigi Barzini si potrebbe liquidare umoristicamente tutta la faccenda replicando che “scrivere è sempre meglio che lavorare”; tale risposta, per quanto sagace, elude con il sorriso il nocciolo problematico della questione offrendo però involontariamente alcune prospettive interpretative oggi più che mai calzanti soprattutto alla luce dei dati esposti sopra.
Scrivere, se ci si fermi un momento a riflettere, è facile; rispetto a tutte le altre forme espressivo-artistiche a disposizione dell’Uomo, la scrittura è quella più accessibile e immediata a chiunque possieda un minimo di alfabetizzazione e mezzi materiali. Paragonata alle altre arti figurative e visive, e ancor più a quelle performative, la scrittura, intensa in senso ampio, si situa decisamente più sul versante della téchne che della pura estetica all’interno di ciò che viene definito Arte; se pittura, scultura, danza, teatro, musica, cinema sono per così dire “fini a se stessi” (anche se ciò non è del tutto vero: per brevità e chiarezza di esposizione in questa sede non terrò in considerazione i fini apologetici, propagandistici, economici, ecc. dietro a innumerevoli esempi di produzione artistica spacciati per/considerati Arte; mi rendo conto che questo tra-parentesi/nota odora inequivocabilmente di “para-sederaggine” rispetto alla direzione verso la quale sto conducendo il discorso, cosa che in effetti è; tuttavia spero che come lettori, nonostante questa e ulteriori semplificazioni che inevitabilmente seguiranno, vogliate concedermi una temporanea benevolenza almeno fino a che non arrivi al punto), la scrittura, considerata non unicamente nella sua forma derivata artistica o peri-artistica, soggiace in maniera tecnologico-pratica non solamente ad altre espressioni artistiche (teatro, cinema, musica cantata per esempio), ma all’intera struttura complessa dell’organizzazione della società degli esseri umani; la scrittura, sia nella forma prodotta che usufruita, permea ogni aspetto della vita quotidiana e del mondo quotidianamente esperito da ciascun individuo (a parte sacche di popolazione prive di alfabetizzazione e/o marginali/esterne al “corso del mondo”). La scrittura è ovunque e sempre: essa è il mezzo tecnico che imbriglia il mutevole e aeriforme linguaggio verbale rendendo possibile la trasmissione e conservazione di concetti, nozioni e conoscenze oltre a veicolare attraverso lo spazio e il tempo sia questi ultimi che le interazioni comunicative fra gli individui; se, secondo l’apostolo Giovanni, in principio vi era presso la divinità il Verbo – ossia il linguaggio – dal quale è originato il Mondo, la scrittura è senza ombra di dubbio il mezzo che ne permette la conservazione, la manipolabilità e la ripetibilità/ricreazione indefinita da parte dell’Uomo. Volgendo lo sguardo alla Storia, la scrittura, per le proprie caratteristiche intrinseche, sancisce il passaggio dalle primitive e frammentarie comunità di tipo tribale fondate sulla trasmissione orale (o al limite pittografica) delle conoscenze/tradizioni alle prime civiltà organizzate e complesse vere e proprie quali quelle della mezzaluna fertile mediorientale. Con l’evoluzione e progresso delle civiltà umane nel corso della Storia (sì, lo so, occorrerebbe dibattere a lungo sulla validità della nozione relativa al cosiddetto “progresso” dell’umanità dall’antichità a oggi; e il racconto qui esposto sulla storia della scrittura lungo tale percorso è estremamente sintetizzato fino alla grossolanità; ma ai fini del discorso del presente articolo/post vi chiederei di far finta di non vedere le vistose crepe alla base della validità di questo assunto e di sospendere momentaneamente il giudizio sulla mia colpevole iper-schematizzazione) e il conseguente accumulo di conoscenza e nozioni, la scrittura, assieme alla lettura, se prima riservata ad una limitata élite, diviene man mano un mezzo tecnico indispensabile al supporto del sempre più complesso e ramificato impianto tecnico-economico della società; la mole totale di conoscenze e nozioni necessarie a riprodurre la società, nonché la complessità esponenzialmente più vasta delle stesse, è tale nel mondo contemporaneo da rendere necessario che la scrittura sia accessibile oltre che obbligatoria (tramite, ovviamente, la scolarizzazione istituzionale) pressoché universalmente sin dall’infanzia in maniera gratuita a chiunque. L’inoculamento in tenera età di questo mezzo tecnico fa sì che la scrittura venga considerata come un’estensione naturale di se stessi, una facoltà quasi innata come il camminare o il respirare, perciò facile, propria, personale, costantemente presso di sé. Perciò si può ben comprendere come, rispetto alle altre modalità espressive artistiche che richiedono competenze e mezzi specifici conseguibili attraverso sacrifici economici, temporali ed energetici addizionali certamente non alla portata di tutti e con risultati non garantiti, la scrittura risulti evidentemente ed effettivamente il “veicolo tecnico” espressivo più facile, immediato ed economico che chiunque abbia a propria disposizione: tutto ciò che occorre al principiante dotato di un’educazione scolastica anche solo meramente entro i limiti dell’obbligo di legge – quindi alfabetizzato, ossia dotato della conoscenza della scrittura nella duplicità della decodificazione e produzione di essa – che voglia cimentarsi nel mestiere di scrittore è A) un’idea/storia/argomento in mente, B) un supporto (come un blocco di fogli vergini) e C) un utensile/tramite (come una classica penna) che trasferisca permanentemente A) su B); et voilà, il gioco è fatto.
Sebbene questa condizione di “facilità materiale” possa offrire una spiegazione ockhamiana e solidamente pratica alle cifre editoriali snocciolate più sopra rispetto al fenomeno delle moltitudini di nuovi titoli editoriali prodotti da altrettante moltitudini di scrittori o aspiranti tali ogni anno, essa risponde solo parzialmente e, per così dire, “quantitativamente” alla domanda posta al principio di questo post/articolo – ossia “perché si scrive?” – illuminando forse il “come” insito all’interno della stessa ma mancando però ancora il pulsante e succoso “perché” che riluce oscuramente della volontà, delle passioni e dei desideri degli esseri umani. Sì, si scrive anche perché si sa come scrivere rendendo l’atto stesso facile e immediato ed eseguibile ovunque, ma tale ragione lasciata a se stessa è un guscio tautologico sulla superficie della questione.

Perché scrivere: correlazioni ontologiche

Un’altra spiegazione parallela e strettamente affine all’aspetto dell’immediatezza pratica come una delle possibili ragioni che muova alla scrittura è di tipo ontologico. Come accennato sopra, la scrittura è il mezzo tecnico/strumento che codifica, veicola e conserva attraverso determinati segni rappresentanti determinati fonemi il linguaggio verbale umano. Il linguaggio verbale umano è una delle forme attraverso cui estrinsecare la matassa in continuo divenire costituita dal pensiero; la scrittura quindi è ontologicamente una forma che sostanzia ciò che avviene nella coscienza individuale: se il linguaggio è strumento del pensiero, la scrittura è il corpo fisico in cui quest’ultimo si può incarnare e divenendo visibile al di là dell’indecifrabilità di qualsiasi volto ospitante cartesianamente un cogito. La scrittura – tramite un atto volontario – in questo senso sostanzia il pensiero: in qualche modo essa è il pensiero declinato attraverso il tempo in una successione di segni linguistici scelti dalla volontà/libero arbitrio individuali; e come è noto, il corpo e il pensiero sono le sole cose che un individuo possieda completamente ed esclusivamente. La scrittura è depositaria del fluire cangiante eracliteo del nostro essere degli esseri individuali e appartenenti a noi stessi: la scrittura, salvando il pensiero dall’oblio, permette di afferrarci e di costruire il mondo un tassello scritto dopo l’altro attraverso il linguaggio, figlio a immagine e somiglianza del lógos (sostantivo dal significato polivalente di scegliere, raccontare, enumerare, parlare, pensare, ma anche, nella forma  leghein, di conservare, raccogliere, accogliere ciò che viene detto e quindi ascoltare) ma inevitabilmente depotenziato e limitato a causa della finitezza della forma umana incatenata alla corrosione inarrestabile del tempo attraverso cui inevitabilmente si manifesta.
Una voce dal loggione potrebbe ora obiettare che anche l’atto del disegnare è un mezzo fisico attraverso cui esprimere e sostanziare ciò che accade nella testa di qualcuno, e tale affermazione di buon senso è certamente vera; poiché la scrittura è un mezzo tecnico appreso, l’essere umano, sia nella Storia cronologica che nella piccola privata storia anagrafica individuale, inizialmente rappresenta il proprio pensiero in forma pittografica, siano le pitture parietali preistoriche di Lascaux o i disegni infantili nell’età pre- o peri-scolastica (= pre- o peri-apprendimento del veicolo scrittorio). Il problema delle rappresentazioni pittografiche risiede però nella polivalenza di significati che possono assumere per i soggetti fruitori (il significato delle pitture rupestri di Lascaux, nonostante tutti gli studi condotti dagli esperti, resta puramente un’ipotesi, allo stesso modo in cui un genitore deve ipotizzare tramite l’interpretazione cosa abbia voluto rappresentare il/la proprio/a figlio/a nel disegno che stia orgogliosamente mostrando, giungendo quasi sempre a dover chiedere esplicitamente che cosa sia) dovuta alla mancanza di codificazione comune dei segni grafici usati inevitabilmente subordinati all’individualità soggettiva e alla capacità/talento di chi li abbia tracciati; oltre a ciò il disegno è limitato nelle proprie potenzialità espressive anche dalla difficoltà o assoluta impossibilità di rappresentare adeguatamente concetti complessi e/o astratti. La scrittura pone una soluzione brillante a tutto ciò legando i fonemi del linguaggio verbale a segni codificati secondo un criterio comune rendendo così “visibili” e “corrispondenti” le parole, ossia, come visto più sopra, il pensiero.
In questo senso l’essere umano, a causa del solipsismo perenne più o meno latente dovuto all’intrappolamento nell’essere il e nel proprio pensiero, è scrittura; e la scrittura è ontologicamente nel, del, e, per certi versi, l’essere umano. Scriviamo quindi perché siamo legati a doppio filo alla scrittura tramite il pensiero che ci costituisce. Ma questa risposta è, di nuovo, ancora parziale e incompleta – seppur capace di illuminare un po’ di più il cuore di oscurità conradiano racchiuso nella domanda attorno a cui ruota questo post/articolo che ha già travalicato la lunghezza auspicabile secondo le norme di buona creanza di un testo destinato ad un blog – poiché non tiene conto delle motivazioni e della volontà che influenzano e sospingono l’agire degli intrattabili esseri umani.

BREVE INTERPOLAZIONE RIGUARDANTE LA DOMANDA POSTA AL PRINCIPIO DELL’ARTICOLO/POST TRANQUILLAMENTE SALTABILE A PIÈ PARI

In questa sezione di approfondimento ho aggiunto, per chi volesse curiosare, una riflessione riguardante linguaggio decisamente troppo lunga e laterale perché potesse essere inserita qui.
Devo quindi ammettere qui a denti stretti e a voce non troppo alta che probabilmente vi sto facendo soltanto perdere tempo, perciò, poiché la risposta che dovrebbe arrivare al fondo di questo post/articolo probabilmente si disgregherà in un fumoso particolato verbale decisamente lontano dalla solida concretezza rassicurante che solitamente ci si aspetti, non me la prenderò se deciderete di terminare la lettura qui; ma se vi andasse di farvi due risate assistendo alla scena tragicomica di qualcuno che metaforicamente si dibatta ficcato per bene in una selva argomentativa di rovi incastrandovisi ancora più a fondo, beh, proseguite voyeuristicamente con me. 

Perché si scrive: movente

Il legame ontologico fra scrittura e pensiero assieme alla disponibilità e possesso strumentale della stessa, pur essendo cogenti alla materialità dell’esecuzione dell’atto scrittorio, mancano, ai fini di una risposta che tenti di essere esauriente alla domanda “perché si scrive?”, di ciò che in criminologia viene definito movente, ossia motivazioni che inneschino la volontà di un individuo in determinate circostanze materiali a compiere determinati atti.
Considerando i dati statistici snocciolati al principio sull’editoria e le pubblicazioni in Italia che avevano lo scopo di ancorare l’articolo/post a qualcosa di concreto e misurabile si può facilmente dedurre come la facilità materiale dell’esecuzione dell’atto scrittorio, mai come oggi facile & veloce grazie ai supporti informatico-digitali che permettono di eseguire stesure, correzioni, riscritture, revisioni e invii dei testi in una frazione del tempo che occorreva all’epoca della battitura a macchina, sia un accelerante alle motivazioni individuali dietro la serie di azioni intraprese non solo per la mera scrittura, ma soprattutto per la pubblicazione o autopubblicazione di un proprio manoscritto; sintetizzando brutalmente: visto che scrivere è così facile e veloce, perché non provare? E magari avere così successo e/o farci dei soldi?
Molti inorridiranno a una simile affermazione, e probabilmente la rifiuteranno, ma l’atteggiamento che traspare come una macchia di umidità che riaffiori dopo ogni tinteggiatura navigando fra blog autoriali dedicati e gruppi di scrittori emergenti su varie piattaforme social pare questo. Sono certo che sono molte le persone che si approcciano e dedicano “ufficialmente” alla scrittura – che sia di poesie, saggi, narrativa, divulgazione, ecc. – animate da passione e interesse autentici cercando di fare del proprio meglio senza mentire (troppo) a se stessi; ma neppure con uno sforzo di immaginazione e una dose forte di ingenua dabbenaggine è possibile credere che nel giro di pochi anni – guarda caso coincidenti con l’implementazione di possibilità online per pubblicare e/o autopubblicarsi – un’armata di Calvino, Roth, Follet, King, Baudelaire, Hemingway, ecc. ecc. si sia scossa dal torpore della sottomissione alla medietà eterna prendendo improvvisamente coscienza della propria talentuosa vocazione scrittoria e seguendo l’urgenza trascendente a condividere i prodotti della stessa con quanta più parte di mondo possibile; non occorre un’indagine antropo-socio-psicologica a tappeto per avvertire l’inequivocabile odore di bullshit provenire da tutto ciò, basta leggere gli impietosi e sconfortanti dati statistici più sopra relativi alla lettura in Italia per capire che vi è altro dietro al fenomeno. La scrittura non è come la matematica, e fra gli scrittori non esistono casi paragonabili a quelli di Srinivasa Ramanujan, il quale, seppur analfabeta, era in grado di eseguire operazioni, passaggi e ragionamenti della più tosta e raffinata matematica astratta in modo del tutto innato. L’abilità scrittoria necessita indispensabilmente di una continua e abbondante cura vivaistica a base di lettura ed esercizio pratico proprio a causa della natura non innata bensì appresa del mezzo espressivo utilizzato – il linguaggio verbale umano in forma scritta – anche in presenza di ciò che si può chiamare talento, il quale però si manifesta sempre e comunque a posteriori. Non voglio dire che non possono esistere individui dotati di un talento per la scrittura precoce e straordinario, ma essi sono inevitabilmente rari e, come già detto, emergono unicamente dopo una costruzione e consolidamento dei propri mezzi tecnico-espressivi – nel caso della scrittura del proprio vocabolario e delle strutture con il quale esso viene organizzato in un testo, entrambi interiorizzati unicamente tramite un apprendimento costituito da lettura e studio. Un breve tour fra estratti, incipit, assaggi della stragrande maggioranza delle opere autopubblicate, o di quelle nel carnet di molte oscure case editrici di dubbia professionalità e moralità (tra cui le famigerate e semitruffaldine case editrici a pagamento), svela le conseguenze nel mondo reale della disparità statistica fra quantità di pubblicazioni e quantità di lettori e letture con cruda durezza, confermando una verità empirica nota da tempo agli addetti ai lavori delle case editrici affermate: la maggior parte di questa roba, ehm, fa schifo. E non parlo di mancanza di talento – caratteristica/qualità non trasferibile, inassimilabile e dalla distribuzione altamente aleatoria – quanto di banalità, sciatteria, pigrizia, incomprensione dei meccanismi narrativi basilari nei casi migliori per giungere a vere e proprie espressioni illeggibili di cosiddetti autori i quali, a giudicare da quanto da essi prodotto, sono evidentemente semianalfabeti. Con ciò non voglio essere inutilmente crudele o sputasentenze o gettar discredito gratuitamente verso chi abbia investito le proprie energie e la propria passione nel processo di composizione, elaborazione, revisione di un testo messo a disposizione del mondo: il frutto di ciò che viene compiuto con sincerità e autenticità prima di tutto verso se stessi, per quanto “brutto”, manchevole, difettoso nei risultati rispetto a canoni qualitativi stabiliti e condivisi, è degno e meritevole del massimo rispetto, poiché l’intenzione e la motivazione che ne traspirano sono (quasi del tutto) genuine, pulite, pure. Il problema nella stragrande maggioranza della stragrande maggioranza di produzioni scrittorie di cui sopra è che tale genuinità, se non del tutto assente, è percepibilmente inquinata da altro. So bene che addentrarsi nel regno delle intenzioni e motivazioni soggettive è quanto meno rischioso e delicato; ognuno di noi è il sovrano assoluto e indiscusso (o così si considera) di tutto ciò che concerne la propria interiorità racchiusa nei 1.300 cc circa di materia encefalo-cerebrale custoditi dietro le proprie fattezze cranio-facciali; ma per poter tentare di dare una risposta abbastanza esauriente e non semplicistica alla domanda posta in principio considerandone con onestà tutti gli aspetti possibili correlati in modo da poter arrivare al “perché” pulsante e vitale nel centro oscuro della stessa occorre analizzare questo spinoso campo umano troppo umano dissotterrando quanto si tenti, più o meno volontariamente, di nascondere. Non è tanto una questione di qualità degli scritti, quanto piuttosto del fatto che tramite la pubblicazione, l’autopubblicazione o la pubblicazione a pagamento (e su quasi 5.000 case editrici potete star certi che la percentuale delle stesse che opera in tale modalità è alta) il privato passatempo scrittorio alimentato dalla passione e dal piacere personali diviene un oggetto pubblico affamato in varia misura di attenzione e riconoscimento in una maniera che non può essere inconsapevole o innocente da parte chi compia questo balzo dall’oscurità privata alla luce pubblica; ed è proprio in questo esclusivamente volontario atto che risiede e inizia l’inquinamento riguardante le intenzioni e le motivazioni dietro l’atto stesso rispondenti ad una delle sfaccettature della domanda “perché si scrive?”, le quali, seppur legalmente lecite, risultano antitetiche con una scrittura assimilabile autenticamente ad un’espressione artistica; e tali motivazioni striscianti appena dietro le quinte delle orde di aspiranti scrittori che intasano l’etere con i prodotti della propria “passione” epifanicamente autorivelata e prontamente assecondata e continuamente ripetuta e magafonata sulla piazza pubblica digitale (fra le innumeri schiere delle produzioni dei quali, però, è difficile avvertire il metaforico “click” yeatsiano “con il quale si chiude una scatola ben fatta” che riveli un’opera che possa aspirare a candidarsi a entrare a far parte della Letteratura – o anche solo essere un onesto e ben eseguito prodotto di intrattenimento) sono invariabilmente legate alla trinità denaro-potere-vanità, gli eterni junk food ipercalorici e assuefacenti alimentanti il nostro ego che costantemente e famelicamente vuole. La possibilità di diventare scrittori affermati è un richiamo potentissimo per tutti quegli ego che vogliono trovare una scorciatoia rapida e facile al successo, alla notorietà e alla ricchezza, senza dimenticare l’effetto suscitato su se stessi e gli altri nell’affermarsi e titolarsi di fronte al mondo come scrittore; vi assicuro che il canto di queste sirene è potente e irresistibile e nessuno – ripeto nessuno – ne è totalmente immune.
È qui che l’adagio umoristico secondo cui “scrivere è meglio che lavorare” svela il volto di Medusa nascosto fra i 78.875 titoli cartacei e i 51.397 e-book, di cui 11.698 in forma di autopubblicazione. Scrivere è davvero meglio che lavorare: nonostante la fatica reale che vi è dietro la stesura, ristesura, revisione, impaginazione, ecc. ecc. di un testo, essa non è paragonabile a ciò che implica una giornata in fonderia, in linea di assemblaggio, in un call center, presso un cantiere, in un ufficio, in un allevamento o azienda agricola e così via, sia sul piano fisico-motorio che sul piano gerarchico-psicologico. Tolti coloro i quali siano benestanti e decidano di scrivere unicamente per vanità data l’alta opinione personale che uno stile di vita benestante spesso comporta, il richiamo di questa scorciatoia carrieristica è per molti un modo per sfuggire agli stritolanti ingranaggi del mercato del lavoro contemporaneo, le cui assurdità, spietatezza e brutalità hanno assunto oggi più che mai connotati patologici; in tal senso le intenzioni e motivazioni dietro chi si trovi in situazioni socio-esistenzial-lavorative prive di speranza per un qualsiasi tipo di miglioramento (fidatevi: nonostante lo sbandieramento pubblicitario dello slogan capitalistico contemporaneo della omniflessibilità sostanziante la in ogni caso vincente imprenditoria di se stessi implicante un campo da gioco che offra le stesse opportunità a tutti, il gioco stesso è truccato; la maggior parte delle persone può sperare effettivamente solo nel galleggiamento a pelo d’acqua rispetto alle spese e ai debiti che costituiscono lo stato d’essere non esplicitato del far parte della società) assumono una sfumatura tragica e commovente nel tentativo spesso isterico di essere consacrati finalmente come scrittori, principalmente per assicurarsi la fonte di sostentamento base che allontani dal patibolo dell’inadempienza economica evitando impieghi precari dalle connotazioni sempre più dickensiane nelle condizioni, oltre che per un riscatto sia intimo che verso il mondo nel potersi considerare non più come insignificanti numeri di matricola su un elenco di risorse umane dalla quantità variabile in base alle esigenze impersonali e inumane delle logiche di profitto quadrimestrale aziendali. Sebbene ciò sia più “nobile” rispetto alla ricerca della notorietà e ricchezza, resta comunque un “perché” nel “perché si scrive?” che opacizza e deforma i risultati dell’atto scrittorio in un modo che è difficile riuscire a non notare; in altre parole chi scrive per soldi/potere/vanità, sia esplicitamente che nascondendolo a se stesso e/o agli altri "non scrive", ma tendenzialmente finisce per produrre cose che hanno un sentore sgradevole e vuoto, o, peggio, con quell'untuosa patina e quel falso sorriso insinuante del piacere-a-tutti-i-costi prima di spillarti dalle tasche dei quattrini e scappare.
Prima che vi mettiate ad urlare le vostre proteste vorrei dire che quanto esposto sopra non è riferito tout court a chiunque decida scrivere avendo in mente la prospettiva teleologica di pubblicare o autopubblicare (non sono così stupido, anche se le prove adducibili a riguardo sono scarse); vi sono sicuramente, anche solo per probabilità statistica, individui nascosti fra le cifre editoriali riportate che scrivano in maniera totalmente disinteressata e “pura”, spinti da una vera vocazione; ma, ripeto, il movente psicologico di ordine economico e/o narcisistico è largamente presente in misura maggiore o minore e più o meno consapevole in quasi chiunque decida di rendere pubblico il proprio lavoro scritto.
Questo “perché” di ordine psicologico illumina maggiormente l’oscurità ma manca però ancora il centro gravitazionale della domanda “perché scrivere?”: non riesce a spiegare perché alcuni individui si ostinino a scrivere senza la famelicità verso la notorietà e il successo (si pensi a Kafka, le cui opere sono state composte e sviluppate interamente in privato e sono state salvate dalle fiamme e svelate al mondo dall’amico Max Brod che scelse di ignorarne le volontà testamentarie esplicite; o si pensi a come Gesualdo Bufalino dovette essere ripetutamente implorato prima che si decidesse a rendere pubbliche le sue opere), ma lo facciano e continuino con costanza a farlo nella propria privata intimità; non solo: anche fra chi scriva spinto in vario grado dall’interesse vi è una zona opaca inspiegabile che alimenta la reiterazione a scrivere, perché è irrealistico che il solo movente economico e/o narcisistico riesca a reggere le difficoltà della scrittura, ossia dell’organizzazione del pensiero (che siano una storia, riflessioni astratte, ricordi, nozioni, ecc.) in una strutturazione linguistica che sia non dico di livello letterario ma almeno lineare. Al fondo del fiume di questa ricerca del Kurtz nascosto nella giungla della domanda “perché si scrive?” vi è qualcosa che è al di là della pratica, dell’ontologia e del movente psicologico, vi è qualcosa che è dietro a questi aspetti e che origina la necessità di perseguire l’atto scrittorio nonostante tutto.

Perché scrivere: metafisica o “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (cit. L. Wittgenstein)

Credo che la domanda attorno a cui ruotano tutte queste riflessioni – nella forma ambivalente “perché scrivere/perché si scrive?” – sia una sotto-questione della più ponderosa e ampia domanda "perché si fa arte?", la quale, assieme agli Interrogativi Fondamentali ontologici, cosmologici e metafisici, accompagna senza risposta l'animale umano da quando esso si è accorto di avere i pollici opponibili ed ha preso coscienza di essere cosciente; è una di quelle domande "toste" che non smetteranno mai di generare tentativi di risposta; è uno di quei quesiti vicini al centro di che cosa significhi essere degli esseri umani, e per questo, secondo me, è una di quelle domande che sono realmente importanti. Come avrete potuto notare dalla fluvialità logorroica del post/articolo, non sono assolutamente in grado di rispondere univocamente e/o esaustivamente; dalla mia ristretta e minuta e monadica prospettiva posso dire che scrivere autenticamente (come dipingere, scolpire, ecc.), pur con tutte le “deviazioni” viste in precedenza è per chiunque crei un impulso dalla forza quasi biologica che giunge prima di qualsiasi razionalizzazione che se ne possa dare: è un qualcosa che si deve fare, un richiamo dalle profondità mariannesche e insondate di se stessi; è un atto quasi riflesso che si compie ancor prima di qualsiasi pubblico, sia esso composto anche solo dai propri occhi; sembra qualcosa che abbia a che fare con la moltitudine interiore che si contraddice whitmaniana. Per tutti coloro che vi si dedichino con purezza fanciullesca i lettori vengono dopo (o addirittura mai); e la scrittura, come l'Arte, deve trasmettere qualcosa, deve essere in grado di darti qualcosa e dirti, o suggerirti, qualcosa di te attraverso il contatto fugace ma effettivo con l'interiorità costitutivamente inaccessibile di un altro essere umano. Almeno, questa è la risposta parziale, incompleta, difettosa – e per voi lettori sommamente deludente temo – che posso dare io. Non so davvero; scrivere è un atto collegato direttamente alla metafisica della domanda che l’individuo si pone di fronte all’universo muto e opaco del quale avverta la sartrianamente gratuita e nauseante meravigliosa assurdità; gli aspetti pratici, ontologici e psicologici illuminano in parte ma non sono sufficienti a spiegare esaurientemente perché si scelga di confrontarsi con la vastità vertiginosa della pagina bianca, perché ci si dedichi, un giorno dopo l’altro, a seguire la propria voce, persino e soprattutto in presenza di un lettore che non vi sarà mai e rimarrà unicamente il proprio io.
Scriviamo forse perché siamo esseri umani, perché come tali siamo dotati della spaventosa caratteristica di essere coscienti di avere coscienza; questi due specchi posti l’uno di fronte all’altro moltiplicanti all’infinito generano tutto il sapere e tutta la produzione teoretico-artistica (e non solo) dell’umanità dal momento oscuro in cui un individuo del genere Homo ha avuto consapevolezza di questa coscienza di coscienza, divenendo così un prisma fra il cosmo e l’altrettanto vasta e moltiplicata propria interiorità inesplorata divenuta accessibile seppur avvolta in una temibile oscurità nella quale non si sa cosa vi si nasconda.
Scriviamo forse anche per sentirci autenticamente umani, per collegarci all’inesplicabile e al trascendente che percepiamo ai margini della realtà scientificamente ed economicamente razionalizzata e che volge direttamente lo sguardo su di noi dai cieli stellati verso i quali è da sempre stata rivolta la domanda attorno a cui vortica l’intero apparato di manifestazioni umane dagli albori: perché siamo qui?
Forse scriviamo perché siamo qui, e siamo qui perché possiamo, dobbiamo scrivere, per ribaltare il celebre verso del “Bhagavadgītā” e divenire, finalmente e autenticamente, creatori di mondi.

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