In questa pagina un approfondimento sul linguaggio che si può collegare alla fondamentale questione: perché si scrive?
Titolo: Il linguaggio verbale
Di: Alessandro Marzulli
Il linguaggio verbale è, senza ombra di dubbio, data la correlazione con il pensiero, la più raffinata e complessa ed elaborata fra tutte le facoltà umane; la linguistica è una materia di studi fra le più ostiche e senza mezzi termini difficili, intricate e faticose con le quali si possa aver a che fare (per farvi capire, i linguisti teorici si esprimono così: “Formalmente una grammatica G è una quadrupla (X,V,S,P) composta da: X: alfabeto dei simboli terminali; V: alfabeto delle variabili o simboli non terminali; S: simbolo distintivo o scopo o ancora assioma della grammatica (appartiene a V); P: insieme di coppie (v,w) di stringhe dette regole di produzione costruite sull'unione dei due alfabeti, denotate anche con α → β. La stringa α non può essere vuota, β invece può esserlo. Il linguaggio generato dalla grammatica è costituito da tutte le stringhe di terminali che possono essere ottenute partendo dal simbolo S e applicando una produzione alla volta alle forme di frase via via prodotte.”) la quale, data l’ampiezza e pervasività del proprio campo di attinenza, si suddivide in diverse sottodiscipline interrelate spesso fra loro a vario livello a seconda del particolare punto di vista considerato; nell’ambito della linguistica teorica, nonostante la risonanza e mediaticità di Noam Chomsky e del suo pensiero (per intenderci egli, padre della “grammatica generativa”, è per la linguistica una figura dalla caratura equivalente a quella di Stephen Hawking per la fisica), gli accademici sono ben lontani dall’aver raggiunto una teoria comune che descriva e svisceri esaurientemente l’argomento (grossomodo e generalizzando: le principali correnti teoriche sono quelle generative in faida aperta con quelle funzionali; chi lo desideri vi dia un’occhiata poiché si tratta di roba intricata e affascinante, ma, anche se dotato di un buon bagaglio culturale e/o di studi, si prepari ad affrontare la prova con un robusto corredo di pazienza, concentrazione e rimedi anti-emicrania), il quale rimane un inesauribile campo di lotta teorico fra tesi tra le più disparate; uno degli aspetti sul quale vi è un consenso universale però è il fatto che il linguaggio è intrinsecamente ambiguo, sia per la mancata corrispondenza biunivoca fra significante e significato in qualsiasi fra le lingue umane, sia perché l'ambiguità è un fenomeno intrinseco al “fatto linguistico” – o parole, cioè “atto linguistico individuale e irripetibile del parlante” nella definizione di Ferdinand de Saussure, fondatore della linguistica intesa in senso moderno – alla testualità e alla comunicazione; comunemente, quest’ambiguità può essere efficacemente sintetizzata dalla domanda/espressione/reazione in risposta ad un enunciato solitamente formulata nella forma “in che senso?”, “che cosa intendi?”, all’origine, se vogliamo, dell’intera ermeneutica (i.e.: metodologia di interpretazione dei testi scritti in filosofia) intesa nel suo senso più ampio contemporaneo. L’ambiguità strutturale e ineliminabile del linguaggio è ciò che rende la scrittura sia infinita che infinitamente fallace: moltiplica indefinitamente ciò che può essere espresso attraverso di essa offrendo nello stesso tempo il fianco a indefiniti fraintendimenti; per questo scienziati, giuristi, filosofi adoperano “gerghi” che tentino di contenerne e addomesticarne l’anguillesca scivolosità tramite la ricerca di un’esattezza il più possibile perfetta che non lasci spazio all’interpretazione (non è un caso che l’esempio riportato sopra del gergo dei linguisti teorici sia così vicino alla matematica pura, la quale trascende il mezzo verbale) fallendo più o meno costantemente in questo proposito (si pensi a come sono scritti i codici giuridico-legislativi e a come sulle ambiguità linguistiche residue nelle stesse proliferino gli avvocati abili nello scovare chiavi interpretative non palesi – dette anche scappatoie/buchi legislativi). Persino il sublime tentativo dell’atomismo logico wittgensteiniano espresso dal “Tractatus logico-philosophicus” di ancorare inequivocabilmente e una volta per tutte il linguaggio alla fattualità del mondo facendo del primo uno specchio esatto del secondo è crollato sotto il suo stesso peso, poiché, ironicamente, proprio a causa del tipo di linguaggio usato, tale opera ha generato un’incontrollabile moltitudine di interpretazioni minandone così immediatamente definitivamente i risultati auspicati (anche se tale meraviglioso fallimento ha indiscutibilmente arricchito il panorama del sapere umano).
Titolo: Il linguaggio verbale
Di: Alessandro Marzulli
Il linguaggio verbale è, senza ombra di dubbio, data la correlazione con il pensiero, la più raffinata e complessa ed elaborata fra tutte le facoltà umane; la linguistica è una materia di studi fra le più ostiche e senza mezzi termini difficili, intricate e faticose con le quali si possa aver a che fare (per farvi capire, i linguisti teorici si esprimono così: “Formalmente una grammatica G è una quadrupla (X,V,S,P) composta da: X: alfabeto dei simboli terminali; V: alfabeto delle variabili o simboli non terminali; S: simbolo distintivo o scopo o ancora assioma della grammatica (appartiene a V); P: insieme di coppie (v,w) di stringhe dette regole di produzione costruite sull'unione dei due alfabeti, denotate anche con α → β. La stringa α non può essere vuota, β invece può esserlo. Il linguaggio generato dalla grammatica è costituito da tutte le stringhe di terminali che possono essere ottenute partendo dal simbolo S e applicando una produzione alla volta alle forme di frase via via prodotte.”) la quale, data l’ampiezza e pervasività del proprio campo di attinenza, si suddivide in diverse sottodiscipline interrelate spesso fra loro a vario livello a seconda del particolare punto di vista considerato; nell’ambito della linguistica teorica, nonostante la risonanza e mediaticità di Noam Chomsky e del suo pensiero (per intenderci egli, padre della “grammatica generativa”, è per la linguistica una figura dalla caratura equivalente a quella di Stephen Hawking per la fisica), gli accademici sono ben lontani dall’aver raggiunto una teoria comune che descriva e svisceri esaurientemente l’argomento (grossomodo e generalizzando: le principali correnti teoriche sono quelle generative in faida aperta con quelle funzionali; chi lo desideri vi dia un’occhiata poiché si tratta di roba intricata e affascinante, ma, anche se dotato di un buon bagaglio culturale e/o di studi, si prepari ad affrontare la prova con un robusto corredo di pazienza, concentrazione e rimedi anti-emicrania), il quale rimane un inesauribile campo di lotta teorico fra tesi tra le più disparate; uno degli aspetti sul quale vi è un consenso universale però è il fatto che il linguaggio è intrinsecamente ambiguo, sia per la mancata corrispondenza biunivoca fra significante e significato in qualsiasi fra le lingue umane, sia perché l'ambiguità è un fenomeno intrinseco al “fatto linguistico” – o parole, cioè “atto linguistico individuale e irripetibile del parlante” nella definizione di Ferdinand de Saussure, fondatore della linguistica intesa in senso moderno – alla testualità e alla comunicazione; comunemente, quest’ambiguità può essere efficacemente sintetizzata dalla domanda/espressione/reazione in risposta ad un enunciato solitamente formulata nella forma “in che senso?”, “che cosa intendi?”, all’origine, se vogliamo, dell’intera ermeneutica (i.e.: metodologia di interpretazione dei testi scritti in filosofia) intesa nel suo senso più ampio contemporaneo. L’ambiguità strutturale e ineliminabile del linguaggio è ciò che rende la scrittura sia infinita che infinitamente fallace: moltiplica indefinitamente ciò che può essere espresso attraverso di essa offrendo nello stesso tempo il fianco a indefiniti fraintendimenti; per questo scienziati, giuristi, filosofi adoperano “gerghi” che tentino di contenerne e addomesticarne l’anguillesca scivolosità tramite la ricerca di un’esattezza il più possibile perfetta che non lasci spazio all’interpretazione (non è un caso che l’esempio riportato sopra del gergo dei linguisti teorici sia così vicino alla matematica pura, la quale trascende il mezzo verbale) fallendo più o meno costantemente in questo proposito (si pensi a come sono scritti i codici giuridico-legislativi e a come sulle ambiguità linguistiche residue nelle stesse proliferino gli avvocati abili nello scovare chiavi interpretative non palesi – dette anche scappatoie/buchi legislativi). Persino il sublime tentativo dell’atomismo logico wittgensteiniano espresso dal “Tractatus logico-philosophicus” di ancorare inequivocabilmente e una volta per tutte il linguaggio alla fattualità del mondo facendo del primo uno specchio esatto del secondo è crollato sotto il suo stesso peso, poiché, ironicamente, proprio a causa del tipo di linguaggio usato, tale opera ha generato un’incontrollabile moltitudine di interpretazioni minandone così immediatamente definitivamente i risultati auspicati (anche se tale meraviglioso fallimento ha indiscutibilmente arricchito il panorama del sapere umano).
Tutto ciò mi porta a dover considerare che non è possibile aggirare o controllare l’ambiguità del linguaggio verbale restando entro i confini dello stesso; occorrerebbe trascendere la forma linguistica per veicolare il pensiero, ma, se non nell’ambito della matematica o fisica teoriche, attualmente non è possibile; il che mi pone nella condizione di dover riconoscere e confessare il fallimento annunciato nell’orizzonte che mi sono posto in questo post/articolo sulla ricerca a beneficio di voi lettori di una risposta alla domanda “perché scrivere?”, la semplicità di quest’ultima (come quella di tutte le Domande Importanti) essendo inversamente proporzionale ai punti di vista sui quali la stessa si innerva nel momento in cui si tenti di approcciarsi ad una risposta che abbia un minimo di significato e verità e completezza oltre la visione monocromatica data da preconcetti, limitatezza di visione o interesse che possano inquinare e condizionare una ricerca in qualche modo autentica intorno a ciascuno di tali innervamenti, ricerca la quale sarà comunque condizionata e viziata sia dalla fallibilità del soggetto che si pone la domanda stessa che dall’impossibilità di trascendere il mezzo linguistico intrinsecamente ambiguo e aperto alle interpretazioni necessariamente utilizzato per esplicitare e rendere decodificabili e fruibili i risultati di questa ricerca di una risposta. Ma l’ampiezza della portata della domanda in quest’ottica rende inconcepibile oltre che impossibile una risposta unica, univoca e inequivocabile, ben confezionata e immediatamente consumabile in tutta la sua fragranza; la sola cosa che potrò tentare di fare sarà portare alla luce alcuni aspetti di riflessione attorno ad essa in ogni caso incompleti, limitati e sfigurati dalla scelta (l’atto della scelta uccide ogni altra possibilità nell’attimo in cui pone il proprio indice su una di esse) di determinate espressioni linguistiche veicolate tramite una quantità limitata di parole in ogni caso ambigue per quanta attenzione possa porre nella scelta (di nuovo), nell’utilizzo e nell’ordine di dispiegamento delle stesse sul foglio/videoschermo.
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