Questo
post/articolo si propone di affrontare in una certa misura il nodo problematico
che si affaccia insistentemente quando ci si confronti con tutto ciò che
riguardi l’atto della scrittura e si ricerchino delle ragioni dietro la domanda
“perché si scrive?”, ossia l’inaggirabile ambiguità di qualsiasi espressione
fondata sul linguaggio verbale umano e alcune delle conseguenze profonde che
tale condizione reca in sé e pone di fronte a chiunque si dedichi, o voglia
dedicarsi, professionalmente o anche solo amatorialmente, alla scrittura.
L’ambiguità
intrinseca del linguaggio verbale umano e il potere della parola
Il
linguaggio verbale umano è, senza ombra di dubbio, data la stretta e vincolante
correlazione con il pensiero, la più raffinata e complessa ed elaborata fra
tutte le facoltà umane; parimenti la linguistica, disciplina scientifica
deputata alla ricerca analitica attorno a caratteristiche, meccanismi, fondamenti del linguaggio stesso, è una materia di studi fra le
più ostiche e senza mezzi termini difficili, intricate e faticose con le quali
si possa aver a che fare (per farvi capire, i linguisti teorici si esprimono
così: “Formalmente una grammatica G è una quadrupla [X,V,S,P]
composta da: X: alfabeto dei simboli terminali; V: alfabeto delle
variabili o simboli non terminali; S: simbolo distintivo o scopo o
ancora assioma della grammatica [appartiene a V]; P:
insieme di coppie [v,w] di stringhe dette regole di produzione costruite
sull'unione dei due alfabeti, denotate anche con α
→ β. La stringa α non può essere vuota, β invece può esserlo. Il linguaggio
generato dalla grammatica è costituito da tutte le stringhe di
terminali che possono essere ottenute partendo dal simbolo S e
applicando una produzione alla volta alle forme di frase via
via prodotte.”); essa, data l’ampiezza e pervasività del proprio campo di
attinenza, si suddivide in diverse sottodiscipline interrelate spesso fra loro
a vario livello a seconda del particolare punto di vista considerato;
nell’ambito della linguistica teorica – sottodisciplina fra le più astratte e
teoretiche in maniera dura e pura votata all’indagine attorno ai “perché”
piuttosto che ai “come” del linguaggio – nonostante la risonanza e mediaticità
di Noam Chomsky e del suo pensiero (per intenderci egli, padre della
“grammatica generativa”, è per la linguistica una figura dalla caratura
equivalente a quella di Stephen Hawking per la fisica), gli accademici sono ben
lontani dall’aver raggiunto una teoria comune che descriva e svisceri
esaurientemente l’argomento, il quale rimane un inesauribile campo di lotta
teorico fra tesi tra le più disparate (grossomodo e generalizzando: le
principali correnti teoriche sono quelle generative in faida aperta con quelle funzionali;
chi lo desideri vi dia un’occhiata poiché si tratta di roba intricata e
affascinante, ma, anche se dotato di un buon bagaglio culturale e/o di studi,
si prepari ad affrontare la prova con un robusto corredo di pazienza,
concentrazione e rimedi anti-emicrania); uno degli aspetti sul quale vi è un
consenso universale però è il fatto che il linguaggio verbale umano è
intrinsecamente ambiguo. Ma ciò che cosa significa?
In
termini tecnici questa ambiguità è dovuta sia alla mancata corrispondenza biunivoca
fra significante e significato in qualsiasi fra le lingue umane, sia perché l'ambiguità
è un fenomeno intrinseco al “fatto linguistico” (o parole,
cioè “atto linguistico individuale e irripetibile del parlante” nella
definizione di Ferdinand de Saussure, fondatore della linguistica intesa in
senso moderno), alla testualità e alla comunicazione. In altre parole ciò può
essere spiegato facendo un paragone disgiuntivo con qualcosa di familiare più o
meno a tutti la cui caratteristica saliente, all’opposto del linguaggio verbale
umano, è l'assoluta non-ambiguità, ossia la matematica; come credo sia noto a chiunque abbia frequentato la
scuola dell’obbligo, essa si basa sulla notazione numerica posizionale decimale
– originaria dell’India, adottata poi dagli arabi, quindi diffusa in Europa e
da lì nel resto del mondo – per la quale dieci simboli/segni numerali, a
seconda della propria collocazione, rappresentano univocamente uno e un solo
concetto quantitativo (il simbolo 1 significa “quantità singola”, 2 significa
“quantità doppia”, 10 significa “quantità decupla” o “quantità singola di
ordine superiore rispetto a quella di riferimento [cioè una singola decina
corrispondente a una decupla unità], e così via); vi sono poi i simboli/segni
aritmetici, i quali rappresentano univocamente, come le cifre, uno e un solo
concetto, in questo caso di azione (+ fra due cifre significa “addizionare la
quantità precedente alla successiva”, ecc.). In questo senso la matematica è un
linguaggio non ambiguo poiché ad ogni segno/simbolo corrisponde un unico
significato, e ogni sequenza e/o combinazione di tali segni/simboli può essere
interpretata in una sola e unica maniera.
Il
linguaggio verbale umano si avvale anch’esso, nella sua forma scritta, di
segni/simboli unitari, cioè le lettere, le quali, un po’ come le cifre, rappresentano
un solo e unico suono (ma fino ad un certo punto); ma i problemi, se così
vogliamo chiamarli, nascono quando le lettere vengono aggregate a formare le
parole, le quali rappresentano una determinata successione di suoni che possono
assumere molteplici significati, anche molto diversi fra loro; ed è in questo terreno
che germoglia e si radica l’ambiguità intrinseca del linguaggio verbale umano.
L’esempio
“pratico” più immediato e comune che mi venga in mente per esemplificarvi tale
aspetto è relativo alla parola “accetta”: essa può riferirsi sia A) all’attrezzo
simile alla scure ma di dimensioni più piccole, utilizzato prevalentemente per
il taglio della legna, sia B) alla terza persona singolare dell’indicativo
presente del verbo “accettare”; il solo modo per (tentare di) riuscire a
distinguere a quale dei due significati tale parola attenga è dato dal contesto
in cui la stessa sia inserita, gli elementi del quale potranno fornire (o meno)
sufficienti elementi interpretativi per discriminare quale dei due
valori-significato sia da attribuire alla medesima sequenza di simboli. Dall’altro
lato vi sono poi i sinonimi, parole le quali dovrebbero rimandare al
medesimo significato attraverso una sovrapponibilità fra le stesse esatta e
collimante che nella realtà però non vi è mai poiché ogni parola possiede e
rimanda a sfumature di senso, significato e concetto leggermente differenti (un
po’ come due dipinti identici realizzati da due mani diverse, o una sinfonia
eseguita da orchestre diverse); non è un caso che i dizionari utilizzino il
simbolo matematico ≈ (cioè “quasi uguale a”) per identificare sinonimi
considerati parziali/distanti. Allargando per un momento il discorso, la
questione diviene ancor più evidente nella traduzione, sia orale che scritta,
da un linguaggio verbale geo-etnografico ad un altro, con tutte le
complicazioni relative alla traslazione del significato originario
salvaguardandone il più possibile l’integrità.
Ancor
più comunemente, per calarci in una quotidianità più familiare che non tiri in
ballo troppe astrazioni concettuali, l’ambiguità intrinseca del linguaggio può
essere efficacemente sintetizzata dalla domanda/espressione/reazione in
risposta ad un enunciato solitamente formulata nelle varie forme “in che
senso?”, “che cosa intendi?”, “che vuol dire?” all’origine, se vogliamo,
dell’intera ermeneutica (i.e.: in filosofia, metodologia di interpretazione dei
testi scritti) intesa nel suo senso più ampio contemporaneo. L’equivoco, il
fraintendimento che tutti abbiamo sperimentato, sia attivamente che
passivamente, nasce proprio dalla molteplicità di significati, a volte
parzialmente sovrapposti, a volte disgiunti, paralleli o contraddittori, di cui
siano e/o vengano caricati, involontariamente o meno, periodi, frasi, e singole
parole componenti le espressioni linguistiche verbali, sia scritte che orali,
che ognuno di noi è obbligato ad utilizzare nella propria interazione con gli
individui parte dell’insieme degli esseri umani che è – che lo si voglia oppure
no – il mondo. Il/i significato/i delle parole, se vogliamo, azzardando un
parallelo che potrebbe far storcere il naso a molti incrollabili
razionalisti-deterministi, è simile a quell’ineffabile, inafferrabile,
indefinibile qualcosa che viene chiamato “anima”, una presenza multiforme
e poliedrica, intangibile eppure “essente” al di là di ogni tentativo di
delimitazione e misurazione; parafrasando Whitman, la parola in sé è “vasta,
contiene moltitudini”; e nell’incipit del Vangelo di Giovanni
troviamo anche che: “In principio era il Verbo [Lόgos], il Verbo era
presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato
fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste.” Il potere insito nella parola, ossia nel linguaggio, è altresì ben
noto all’umanità fin dalla comparsa di tale facoltà, e come tale è stato
estensivamente adoperato per qualsivoglia scopo/finalità di tipo politico,
religioso, economico, culturale, artistico, da Hammurabi a Derrida, da Gorgia a
Hitler, da Machiavelli a Bush jr., e così via ad libitum (la storia
dell’umanità, più che di azioni ed eventi, è fatta e intrecciata di parole).
L’ambiguità
strutturale e ineliminabile del linguaggio, sapientemente e consapevolmente
usata, concorre alla creazione di nessi, associazioni e cortocircuiti mentali
dall’indubitabile effetto, che siano un trattato filosofico, un monologo
bergonzoniano, una classica freddura umoristica o un lapidario slogan
pubblicitario (proprio per tali effetti essa è attivamente e rapacemente
sfruttata nel mondo del marketing per catturare e colpire l’attenzione
del potenziale consumatore nell’eterna speranza di agganciarne la volontà a
separarsi dai propri quattrini tramite arguti quanto più spesso crassi giochi
di parole e doppi sensi rimandanti a funzioni corporali o all’attività
sessuale); essa è ciò che rende la scrittura sia infinita che infinitamente
fallace: moltiplica indefinitamente ciò che può essere espresso attraverso di
essa offrendo nello stesso tempo il fianco a indefiniti fraintendimenti. Scienziati,
giuristi, filosofi adoperano “gerghi” tecnici che tentino di contenerne e
addomesticarne l’anguillesca scivolosità tramite la ricerca di un’esattezza il
più possibile perfetta che non lasci spazio all’interpretazione (non è un caso
che l’esempio riportato sopra del gergo dei linguisti teorici sia così vicino
alla matematica pura, la quale trascende il mezzo verbale) fallendo più o meno
costantemente in questo proposito; si pensi a come sono scritti i codici
giuridico-legislativi e a come sulle ambiguità linguistiche residue nelle
stesse proliferino gli avvocati abili nello scovare chiavi interpretative non
palesi (dette anche scappatoie/buchi legislativi). Persino il sublime tentativo
dell’atomismo logico wittgensteiniano espresso dal Tractatus
logico-philosophicus di superare i problemi posti da questa caratteristica ancorando
inequivocabilmente e una volta per tutte il linguaggio alla fattualità del
mondo facendo del primo uno specchio esatto del secondo è crollato sotto il suo
stesso peso, poiché, ironicamente, proprio a causa del tipo di linguaggio
usato, tale opera ha generato un’incontrollabile moltitudine di interpretazioni
minandone così immediatamente e definitivamente i risultati auspicati (anche se
tale meraviglioso fallimento ha indiscutibilmente arricchito il panorama del
sapere umano); tale tentativo di assoluta disambiguazione ha per così dire
creato sì uno specchio di mondo ineccepibilmente logico e astratto, lineare e
consequenziale, privo dei nonsensi logici attribuibili a ciò che, complice
l’ambiguità del fatto linguistico, ribolle nel calderone della metafisica; ad
uno sguardo un poco più attento ci si accorge che il Tractatus però non
è uno specchio riflettente, bensì un eccezionalmente raffinato trompe l’oeil
del tutto svuotato della grondante carnalità promiscua del mondo (umano) reale
in cui ci troviamo tutti ad agire e con il quale, piaccia oppure no, ci
dobbiamo confrontare (nota: Wittgenstein, che era ben lontano dall’essere un
accademico rigidamente innamorato della propria produzione teoretica, si
accorse abbastanza in breve di tutto ciò, e rielaborò molti aspetti del proprio
pensiero nei manoscritti confluiti nelle Ricerche filosofiche di
pubblicazione postuma). Gli scrittori, al contrario, e la Letteratura,
proliferano su, e beneficiano di, questa caratteristica poietica intrinseca del
linguaggio: è opinione abbastanza comune che ogni opera scritta possa essere
ricondotta ad una ridotta manciata di tipologie nucleiche di trama, da cui
l’adagio per il quale si sente affermare che ogni storia è già stata scritta;
ma la sterminata moltitudine di titoli della biblioteca dell’umanità ben
rappresenta, nel bene e nel male, l’infinità delle possibilità di raccontare
qualcosa in maniera indefinitamente differente e nuova e rivelativa grazie
proprio alla natura non univoca del linguaggio stesso e delle parole che lo compongono
– i.e. grazie all’ambiguità intrinseca dischiudente l’orizzonte vertiginoso e
sconfinato dell’interpretazione e di tutte le conseguenti ramificazioni e
iterazioni riflessive/speculative.
Ogni
libro è la tessera minuta di un mosaico infinito ancora in piena realizzazione
che è in sé solo parte di ciò che è realmente essere degli esseri umani. La
fortuna di chi si dedichi alla scrittura risiede in questa ambiguità, la quale
però, come il poliedrico शिव (Shiva) dai 1008
nomi/attribuzioni, reca in sé un potenziale distruttivo che va oltre ogni
velleità illusoria di controllo da parte dell’essere umano.
Incontrollabilità
degli effetti di ciò che si scrive: l’esempio Salinger-Chapman-Lennon
Mi
rendo conto di come tutto ciò vi possa apparire come un a latere astruso
e fuori contesto, una digressione ombelichesca che non c’entra nulla con l’atto
della scrittura e con una ricerca sulle ragioni dietro alla domanda “perché
scrivere?” ma, credetemi, non è (del tutto) così; chi si dedichi alla scrittura
e/o decida di riflettere e discorrere attorno ad essa, deve tenere
presente e considerare che non è possibile, per quanta maniacale cura e
attenzione si prestino, aggirare o controllare l’ambiguità del linguaggio
verbale restando entro i confini dello stesso; parafrasando la Legge di
Murphy, alla luce dell’ambiguità del fatto linguistico, si può affermare
che “se un enunciato può essere frainteso lo sarà”. Per evitare ciò occorrerebbe
trascendere la forma linguistica in modo da veicolare esattamente il pensiero,
ma, se non nell’ambito della matematica o fisica teoriche limitatamente ai
concetti ad esse pertinenti e separati da tutto ciò che è “umano troppo umano”,
attualmente non è possibile; come esseri umani siamo nel e siamo il
linguaggio verbale appartenente unicamente a noi in tutta la complessità di
pregi, difetti, limiti, possibilità, problemi originati proprio dall’ambiguità
di fondo di esso e che siamo costretti a dover affrontare.
Se
la possibilità del fraintendimento è un fatto comunemente vero e accettato per
le espressioni linguistiche in contesti di comunicazione più o meno breve e/o
immediata, essa pare più remota per chi decida di applicarsi alla scrittura di
tipo narrativo-intrattenitivo. A fronte dei testi sacri delle diverse culture-religioni
mondiali, i quali, a causa soprattutto dell’estrema carica di componenti
politiche, di interesse e di esercizio del potere/controllo, hanno dato adito a
interpretazioni estremizzate e spesso contraddittorie dalle conseguenze
terribili e sanguinose (Inquisizione e Jihad fra tutte), le opere letterarie
potrebbero parere decisamente più inoffensive sul versante sia interpretativo
che degli effetti dell’interpretazione stessa; dopotutto un romanzo o un
racconto, (a parte ovviamente quelli intenzionalmente gravati da obiettivi
propagandistici, politici, ecc.) sono quasi sempre semplici storie raccontate e
per certi versi fini a se stesse. Eppure anche su questo versante l’ambiguità
del linguaggio non è da prendere sottogamba poiché può avere, come anticipato
sopra, effetti tragici. A questo proposito vorrei portare un esempio che forse
pochi fra i miei coetanei e fra i più giovani dediti alla scrittura hanno
presente, poiché risale all’ormai distante 1980: l’omicidio di John Lennon da
parte di Mark David Chapman.
In
breve: Chapman, ex guardia giurata, ex tossicodipendente, con precedenti di
disordini mentali, über-fan dei Beatles, l’8 dicembre del’80, circa
quattro ore dopo essersi fatto fare un autografo da Lennon (momento ritratto da Paul Goresh nella foto sopra), lo uccise
sparandogli cinque volte di fronte all’ingresso del Dakota Building, dimora del
cantante.
Bene,
ma che cosa c’entra con l’ambiguità del linguaggio, ecc. ecc.?
Al
momento dell’assassinio, Chapman aveva con sé una copia de Il giovane Holden
di Salinger che si mise a (ri)leggere accanto al corpo di Lennon in attesa dell’arrivo
della polizia; in seguito dichiarò di essere stato talmente influenzato dal
libro al punto di voler effettualmente seguire il, e aderire al, modello
rivoltoso, insofferente e “contro” rappresentato dal protagonista così com’è descritto
nel libro, Holden Caulfield, proprio attraverso tale abominevole atto.
Prima
di scuotere la testa e scrollare tale esempio come un’esagerazione gratuita o
la classica eccezione che “non fa testo”, vi chiederei di riflettere sul fatto
che tutto ciò è accaduto realmente. L’operazione ermeneutica di Chapman
su un innocuo romanzo di formazione considerato un capolavoro letterario,
sicuramente acuita da componenti psico-patologiche, lo ha portato a leggervi
dentro, fra i vari significati del suo personale rapporto con il testo, la necessità
di uccidere qualcuno; ed egli lo ha fatto.
Mi
rendo conto di come quest’esempio sia estremo, uno di quei fuori-scala che si
tende ad ignorare in favore di un rassicurante, solida, quantitativamente (e
democraticamente) maggiore medietà statistica utilizzata per comprovare quasi
ogni tesi o argomentazione che voglia attestarsi come verità o norma di ordine
generale, così come mi rendo conto di come sia pressoché certo che Salinger non
abbia avuto la minima intenzione di infondere nel romanzo un significato quale
quello “lettovi” da Chapman (riguardo al rapporto fra opera letteraria e autore
si aprirebbe qui un discorso più vasto tangente la critica letteraria e tutte
le sue innumerevoli correnti dagli effetti godzilleschi sulla tenuta degli
argini del presente post/articolo; fra le varie posizioni critiche, ciò che da
esse viene definito come “intento autoriale” varia dall’essere fondamentale a
essere del tutto irrilevante; ai fini del mio discorso relativamente
all’esempio su cui lo stesso si fonda mi schiererò ad interim assieme
alle prime); ma per onestà/integrità sia morale che intellettuale tali
eccezioni devono essere tenute in considerazione nonostante la capacità che
possono avere di minare sistemi e costrutti ritenuti validi e consolidati fino
alla confutazione degli stessi. I sistemi, i costrutti e le generalizzazioni
sono funzionali al mantenimento di un’impalcatura strutturale su cui si fonda
il nostro rapporto teoretico, ermeneutico e pragmatico con il mondo che
verrebbe distrutta dall’invalidamento insito nelle eccezioni; se il contenuto
del libro salingeriano può essere ritenuto generalmente inoffensivo – al
contrario di un Mein Kampf esplicitamente inneggiante alla violenza – e
tale affermazione può essere considerata vera per una maggioranza statistica
dei suoi potenziali lettori tale da poter essere tranquillamente equiparata ad
un’universalità di fatto, l’evento Chapman-Lennon, pur mettendo teoricamente in
crisi il giudizio di inoffensività del testo, non può di fatto invalidarlo,
poiché altrimenti, per consequenzialità logica, ogni romanzo simile dovrebbe
essere censurato/ritirato/vietato per prevenire l’eventualità di qualsiasi
altro atto simile; e ancora similmente, di pari passo, al fiorire di
reazioni/effetti/conseguenze d’eccezione, ogni tipo di espressione scritta
sarebbe destinata alla medesima sorte in un imbavagliamento totale
dell’espressione del pensiero, della cultura e della libertà (non dissimilmente
da quanto già sperimentato dall’umanità fino a, di nuovo, tragiche e sanguinose
conseguenze, con gli esempi di Socrate, Giordano Bruno, Galileo, Solženicyn,
ecc.) e questa sarebbe davvero un’esagerazione.
Fatta
questa considerazione, resta comunque il fatto che tale avvenimento pone delle
riflessioni inaggirabili rispetto sia al versante dell’ambiguità intrinseca del
linguaggio umano che a quello della consapevolezza di tale condizione/caratteristica
fondamentale.
Responsabilità
e consapevolezza, e l’intrinseco fallimento insito in ogni scrittura
L’intento
dell’esempio riportatovi sopra è quello di mostrare quanto l’ambiguità
ineradicabile del linguaggio e il potere di cui essa è circonfusa siano in
questo senso potenti e temibili; è quindi necessario che chi si dedichi alla
scrittura ne sia consapevole e maneggi questo aspetto instabile e
trinitrotoluenesco con l’attenzione, la cura e la concentrazione che di solito
si pensano riservate solamente a qualcosa pari alla microneurochirugia o al
disinnesco di un congegno esplosivo.
Di
nuovo un’esagerazione legata all’eccezione trascurabile menzionata sopra?
Forse. O forse tutto ciò è per insistere sull’aspetto della scrittura a cui si
tende a dare minor peso fra quelli solitamente presi in considerazione, ossia
gli effetti che le parole organizzate in un testo possono avere sulle persone
che vi si imbatteranno; e non mi riferisco al suscitare o meno
piacere/ammirazione (che è un motore potente e nascosto nella maggior parte
delle opere contemporanee di autori noti o meno noti o misconosciuti). Parafrasando
lievemente i Pearl Jam, “some words when written can’t be taken back”:
ogni parola, ogni espressione linguistica, per quanto intangibile, ha un peso –
confermato banalmente dal senso comune – che produce effetti tangibili sul/i
destinatario/i (si pensi alla a volte delirante censura modificatrice di
termini linguistici avvertiti come offensivi operata in nome di ciò che viene
definito politically correct).
Il
linguaggio è una forma incarnata del pensiero, e noi, in quanto esseri umani
aristotelicamente zôon politikòn, non possiamo trattenerci
dall’usare il linguaggio per comunicare il nostro pensiero – sia una nozione o
una riflessione – ai nostri simili; mentre la comunicazione orale è vincolata
all’immediatezza temporale all’interno della quale l’elaborazione della stessa avviene,
la scrittura al contrario può respirare nello spazio di tempo molto più ampio
fra la formulazione del pensiero e la scelta della forma linguistica migliore
per esprimerlo. I fraintendimenti/equivoci generati nelle interazioni orali
sono inevitabili poiché legati all’assenza di spazio di manovra temporale entro
cui poter decodificare e disambiguare l’enunciato verbale ricevuto per poi
subito organizzare una risposta decodificabile che sia il meno ambigua
possibile (ciò ovviamente non vale per quelle interazioni – ad esempio il
corteggiamento – entro le quali una determinata forma di ambiguità alludente è
a volte preferibile); l’atto scrittorio, al contrario, pone il soggetto nella posizione
di ponderare quanto dovrà enunciare con la possibilità di rileggersi ed
eventualmente correggere/modificare. Se è vero che si è responsabili delle
proprie parole oralmente pronunciate pur tenendo presente una certa tolleranza
rispetto agli effetti del contenuto delle stesse, ciò è ancor più vero – fino
all’assolutezza del comandamento biblico – per quanto venga espresso in forma
scritta proprio in virtù della possibilità data dal tempo di ponderare e
verificare e correggere forma e contenuto del proprio testo, quale che sia (non
è un caso che il linguaggio in forma scritta, grazie anche alla sua
caratteristica di permanenza rispetto alla caduca volatilità di quanto
pronunciato a voce, conservi tutt’oggi, pur nella società liquida baumanesca
impermanente e inafferrabile [e irresponsabile] un’aura di
sacralità-autorevolezza di cui alla forma variamente declinabile “è scritto su
[…]” per rafforzare la veridicità di qualcosa).
Ripeto:
non è un argomento ozioso e inutilmente astratto, poiché questa ambiguità
genetica produce effetti tangibili e spesso tragici nel mondo reale: l’interpretazione
fuorviata del linguaggio umano è decisamente più comune di quanto si pensi di
primo acchito, soprattutto nelle interazioni orali o para-orali (quali SMS,
messaggi tramite Whatsapp o applicazioni simili, discussioni in qualsiasi chat,
scambi di e-mail in ambiente lavorativo) fra soggetti; non credo di andare
esageratamente fuori strada affermando che chiunque, nella cornice della
comunicazione verbale, sia stato equivocato o abbia equivocato almeno una volta
nella vita, andando a volte incontro a conseguenze inaspettate, dannose e
dolorose senza volerlo – cioè senza averne l’intenzione (anche se per Samuel
Johnson “Hell is paved with good intentions”).
Ogni
individuo che decida di dedicarsi alla scrittura, soprattutto la produzione di
scrittura per un pubblico, deve necessariamente procedere con la consapevolezza
che l’ambiguità intrinseca del linguaggio verbale su cui la scrittura non solo
è fondata ma esiste reca in sé costantemente e ineludibilmente un fallimento
nascosto che ciascun testo avrà rapportato alle intenzioni dell’autore – i.e.:
rispetto a ciò che voleva dire – con conseguenze potenziali assolutamente
imprevedibili e pericolose; non è un caso che il detto reciti “la penna ferisce
più della spada”, poiché la riottosità e selvatichezza nascoste nelle parole
sono sempre presenti e in grado di danneggiare e colpire inaspettatamente. Per
quanta attenzione e cautela si possano porre durante la scelta della
successione di parole che andranno a comporre un testo, non sarà possibile
calcolare anticipatamente tutti i possibili effetti su ciascuna delle coscienze
che potrebbero leggere detto testo; e qui cade l’ombra del fallimento che
pervade qualsiasi scrittura. Cionondimeno è responsabilità precisa e
inderogabile di ciascun scrivente di porre la massima cura e la massima
attenzione possibili durante l’intero processo, anche quando si desideri
scrivere unicamente con e per leggerezza e/o divertimento. Ciò è duro,
faticoso, difficile e sconfortante, e destinato inevitabilmente al fallimento –
vi sarà sempre qualcuno che decifrerà un testo in un modo diverso e/o
diametralmente opposto a quanto si è tentato di infondervi. Eppure
consapevolezza e responsabilità a mio parere sono necessarie e fondamentali per
chi decida di dedicarsi alla scrittura nella prospettiva di una diffusione
pubblica del proprio lavoro, e dovrebbero rappresentare un equivalente intimo del
Giuramento di Ippocrate per cui chiunque eserciti pubblicamente la scrittura. Come
l’attenzione che si pone nel redigere un testo che sia privo di errori
grammaticali, il più chiaro possibile e non inutilmente oscuro/prolisso come
forma di rispetto verso il lettore (sia esso unicamente l’autore stesso in un
momento posteriore o un lettore esterno) per evitare di gravarlo di fatica e
difficoltà non necessarie nell’operazione di decifrazione dello stesso è una good
practice afferente alla forma esteriore di che consideriamo “essere
civili”, la cura consapevole dedicata al contenimento degli effetti
dell’ambiguità del linguaggio potrebbe rivelarsi ed essere considerato come
un’interiorizzazione autentica di un tale modo d’essere dagli effetti benefici
bidirezionali nel rapporto soggetto-mondo (= gli altri), oltre a fornire una
piattaforma prospettica più elevata dagli ulteriori innegabili benefici per
l’articolazione e profondità della scrittura.
BREVE
INTERPOLAZIONE CALATA NELL’INIGNORABILE COGENZA DEGLI EVENTI GLOBALI DI CUI
ALLA TERZA DECADE DEL MESE DI MARZO DEL 2020 APPARENTEMENTE FUORI TEMA MA CONNESSA AL NOCCIOLO
PROBLEMATICO APPROFONDITO NEL PRESENTE POST/ARTICOLO
Questo
post/articolo nasce al tempo in cui la sequenza di avvenimenti globale senza
precedenti nella vita di pressoché tutti era ancora in nuce e confinata
in una (per chi si trovi qui in Italia) remota regione geografica a distanza
incommensurabile da qualsiasi preoccupazione più grave di un’alzata di
sopracciglio. Dopo una piuttosto lunga riflessione ho deciso di attualizzare il
post/articolo esponendovi un esempio legato a questo surreale presente per tentare
di chiarire alcuni aspetti del concetto di responsabilità a cui mi riferivo nella
sezione precedente: aggirandomi compulsivamente nel web per il periodico e
masochistico damage report Picard-esco relativo alla pandemia di
COVID-19, mi sono imbattuto in un articolo dal grosso titolo enunciante “Coronavirus,
muore ragazza di 27 anni a Pesaro: è la vittima più giovane d'Italia”, il quale
(assieme a innumerevoli titoli simili) mi ha suscitato – e sono certo di non
essere il solo – un’impennata ansiogena supplementare improvvisa in un momento
storico dalle circostanze già più che sufficientemente delicate e difficili e
ansiogene; interpretando tale espressione linguistica in tale forma si desume
che una persona molto giovane e, presumibilmente, data proprio l’età
(generalmente equivalente ad uno status biologico non compromesso – o
almeno io, a meno che non si tratti di una stella della musica rock/pop,
associo inevitabilmente e automaticamente il dato anagrafico “anni: 27” a un
individuo fisiologicamente sano) in salute è caduta vittima della malattia
causata dal virus Sars-CoV-2, il quale, mentre scrivo questo addendum,
dalle informazioni reperite prima dell’impatto con tale titolo sembrava
risultare più aggressivo e pericoloso nei confronti di individui anziani o
molto anziani affetti già da una o più patologie; subitaneamente il mio
cervello produce la seguente stringa continuativa di inferenze logiche:
- se una ventisettenne (= persona in salute) è morta, il virus è divenuto più aggressivo/pericoloso/fatale;
- allora ancora più persone sono a rischio della propria vita essendo aumentata la mortalità della malattia;
- se è aumentata la mortalità è aumentata anche l’infettività della malattia (so bene che non vi è necessariamente correlazione fra i due aspetti, ma spiegatelo alla zona limbica primitiva e irrazionale del mio cervello messa in moto dalla scarica di panico procuratami dal titolo di quell’articolo);
- più persone allora si ammaleranno e moriranno, e più in fretta;
- le infrastrutture sanitarie, produttive, governative si disgregheranno all’aumentare delle infezioni e dei decessi;
- non vi saranno più acqua, cibo, elettricità, riscaldamento, né alcuna autorità a cui poter fare riferimento;
- i legami sociali si deterioreranno fino a svanire nella brutale e sanguinaria realtà della logica di sopravvivenza;
- il mondo finirà.
Aprendo
l’articolo e leggendolo fino in fondo mentre il terror panico cerca di
accecare l’ultimo bagliore di raziocinio rimastomi scopro, con immenso e
colpevole sollievo (non trovo cosmologicamente giusto provare una simile
sensazione di fronte alla morte di chicchessia), che questa sfortunata ragazza soffriva
di gravi patologie pregresse. Ora, sono conscio del fatto che si dovrebbe
leggere ogni articolo fino in fondo prima di farsi afferrare dagli effetti
provocati da una lettura parziale, ma, come moltissime persone, per mancanza di
tempo o semplice pigrizia mi limito (colpevolmente) a scorrere soltanto i
titoli delle notizie per ottenere quel quantum d’informazione che sul
momento mi pare sufficiente ricevere/immagazzinare prima di approfondirne
eventualmente la lettura. Come si connette ciò con il discorso attorno alla
necessità di avere responsabilità e consapevolezza di ciò che si scrive?
Ebbene, pur nell’estremizzazione della mia personale reazione al titolo di quell’articolo
a beneficio del punto a cui voglio condurvi, ritengo che esso, in tale forma
scelta per la pubblicazione, sia, date le circostanze stringenti e delicate del
momento, inutilmente sensazionalistico oltre che irresponsabile; attenzione:
non sto affermando che quel titolo affermi il falso, poiché le informazioni
enunciate corrispondono a fattualità; ma non si può negare che la determinata
sequenza di parole scelta per veicolare tali informazioni, proprio per l’ambiguità del
linguaggio e le parallele implicazioni deducibili dalle stesse, sia non troppo
sottilmente aperta a generare considerazioni/riflessioni dagli effetti
ansiogeni negativi in un peculiare momento che non necessita di ulteriori
aggravi psichici gratuiti. Lungi dal desiderio di fomentare sterili polemiche (nonostante
Eraclito, con straordinaria preveggenza, scrivesse 2500 anni fa che “Polemos
è padre di tutte le cose, di tutte re”) ritengo di non essere completamente nel
torto affermando che titolare con “Coronavirus: affetta già da altre patologie,
muore a Pesaro a 27 anni la più giovane vittima d’Italia” avrebbe veicolato la
stessa informazione senza il bonus en passant di un’indotta
iniezione di panico supplementare gratuito, il quale, visto l’alterato
equilibrio osmotico interiore instabile di ciascuno di noi, potrebbe non troppo
irrealisticamente generare conseguenze, come affermato supra,
potenzialmente imprevedibili e pericolose. Comprendo la logica per la quale chi
produca qualcosa di scritto, e a maggior ragione un mezzo d’informazione
giornalistico, debba cercare in tutti i modi di catturare l’attenzione di
quanti più lettori possibile in vista di una visibilità possibilmente sempre
più ampia alla quale corrisponda un ritorno economico che non sia meramente
sussistenziale, ma, come ho detto e ripeto, ciò dovrebbe essere fatto, a
maggior ragione in questa surreale primavera pandemica 2020, con consapevolezza
e responsabilità quasi ippocratiche.
Suona
ridicolmente naïve appellarsi alla coscienza individuale in una realtà
contemporanea nella e per la quale si è chiamati a divenire ed essere
efficienti computatori produttivi solipsistici – a discapito degli altri, in
molte occasioni – ma ora più che mai il clickbaiting e simili
comportamenti rapaci sono tossici al limite del criminale, e personalmente li
trovo moralmente sbagliati ed eticamente scorretti, né più né meno di chi
aggiri in malafede la quarantena profilattica attualmente imposta per evitare
allo stesso tempo sia il repentino diffondersi esponenziale del contagio e dei
relativi casi potenzialmente fatali che, soprattutto, il collasso
dell’infrastruttura sanitaria, trovatasi indebolita da anni di tagli finanziari
ad affrontare una situazione i cui precedenti risalgono all’onirica e obliata
polverosità storica di un secolo fa (si aprirebbero qui ampie praterie
argomentative da esplorare in tutta la loro vastità e complessità topografiche,
ma non è certo questa la sede per una ricognizione di tale portata e dalle
implicazioni spinose).
Si
provi ad immaginare cosa possa causare la lettura di un simile titolo a chi si
trovi in questo momento a dover lavorare in supermercato, un’azienda
manufatturiera, un negozio, o alla raccolta dei rifiuti (e così via),
impossibilitato/a a poter rimanere nella sicurezza claustrale domestica, e ci
si chieda: è davvero necessario gettare ulteriore combustibile sulle braci vive
della paura quando si potrebbe gettarvi sopra, invece, un po’ d’acqua?
Il
fallimento (consapevole) di un articolo e del suo autore
Consapevolezza
e responsabilità mi pongono ora insistentemente nella condizione di dover
riconoscere e confessarvi a occhi bassi e denti stretti qualcosa: il presente post/articolo
ha preso spunto da, ed è nato parallelamente a, un post/articolo precedente – i.e.
“Perché si scrive? Riflessioni incomplete in cerca del cuore pulsante dell’atto
scrittorio” – sviluppato attorno alla ricerca di una possibile risposta a un
semplice quanto fondamentale domanda, una di quelle umanissime Domande
Importanti; ebbene, ciò che mi preme di confessarvi (soprattutto se siete
arrivati qui prima di concludere la lettura del post/articolo summenzionato) è
il mio fallimento verso l’obiettivo che mi sono posto come orizzonte, ossia
ricercare una chiara risposta alla minuta e apparentemente inoffensiva domanda
“perché si scrive?”, ammannendovi ugualmente una solfa abbastanza densa nella
forma di una ricerca lunga qualche migliaio di parole che già sapevo
fallimentare in partenza. La semplicità di tale domanda – come di tutte le
Domande Importanti – diviene inversamente proporzionale ai punti di vista sui
quali la domanda stessa si innerva esattamente nel momento in cui si tenti,
tramite un’indagine tentativamente approfondita, un approccio ad una risposta
che abbia un minimo di significato e verità e completezza che riesca ad andare oltre
la visione monocromatica data da preconcetti, limitatezza di visione o
interesse che possano inquinare e condizionare una ricerca in qualche modo
autentica intorno a ciascuno di tali innervamenti; non solo, ma tale indagine/ricerca
sarà comunque condizionata e viziata sia dalla fallibilità del soggetto che si
pone la domanda stessa che dall’impossibilità di trascendere il mezzo
linguistico intrinsecamente ambiguo e aperto alle interpretazioni
necessariamente utilizzato per esplicitare e rendere decodificabili e fruibili
i risultati di questa ricerca di una risposta. L’improvvisa ampiezza della
portata della domanda in quest’ottica rende inconcepibile oltre che impossibile
una risposta unica, univoca e inequivocabile, ben confezionata e immediatamente
consumabile in tutta la sua fragranza; la sola cosa che potrò tentare di fare sarà
portare alla luce alcuni aspetti di riflessione in ogni caso incompleti,
limitati e sfigurati dalla scelta (l’atto della scelta uccide ogni altra
possibilità nell’attimo in cui pone il proprio indice su una di esse) di
determinate espressioni linguistiche veicolate tramite una quantità limitata di
parole in ogni caso ambigue per quanta attenzione possa porre nella scelta (di
nuovo), nell’utilizzo e nell’ordine di dispiegamento delle stesse sul
foglio/videoschermo; tale discorso, assieme alla confessione contrita e
imbarazzata del fallimento già notomi a priori, vale anche per il presente
post/articolo che vi siete sorbiti fino a qui. E la consapevole certezza del
fallimento a prescindere in questo senso è applicabile anche ad ogni
parola, riga o testo io abbia mai prodotto sia prima di questi due
post/articoli, sia che a quelli che produrrò in qualsiasi forma in futuro; è
inevitabile.
Al cospetto di una
simile rivelazione potrei lasciarmi cadere nell’abulia di uno sconforto
rinunciatario che abortisca ogni tentativo di scrittura da qui in avanti (e
qualcuno, a fronte dei miei scritti, penserà forse che ciò sia caldamente
auspicabile); oppure arroccarmi nell’inviolabilità di una blissful ignorance
tale e quale a una tuta hazmat che mi isoli completamente da qualsiasi
dubbio/riflessione cosicché io possa, al sicuro e in santa pace, espettorare in
forma scritta qualsiasi cosa mi passi per la testa senza che nulla e nessuno me
lo impedisca; dopotutto, data l’inviolabilità del libero arbitrio e della
libertà di parola personali – entro i limiti di legge democratici – posso
esprimere ciò che più mi aggrada nel modo che più mi aggrada. Ritengo però che entrambi
gli atteggiamenti siano nocivi, infantili e stupidi fino all’autolesionismo. La
ricerca continua dell’esattezza della parola in tutti gli aspetti formali ed
estetici, contenutistici e consequenziali, metafisici e morali, è, almeno per
me, la sola via percorribile, la sola via autenticamente critica e umana, pur
nell’incessante rincorsa verso un traguardo a cui non si sarà mai in grado di
giungere; è, pur nel fallimento annunciato, la sola maniera che possa
debitamente rispettare sia l’arcano, sacrale e incontrollabile potere insito
nella parola, che, più di ogni altra cosa, tutti gli esseri umani che nelle mie
parole scritte possano imbattersi.
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