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Ambiguità, incontrollabilità e fallimento insiti in ogni scrittura

Questo post/articolo si propone di affrontare in una certa misura il nodo problematico che si affaccia insistentemente quando ci si confronti con tutto ciò che riguardi l’atto della scrittura e si ricerchino delle ragioni dietro la domanda “perché si scrive?”, ossia l’inaggirabile ambiguità di qualsiasi espressione fondata sul linguaggio verbale umano e alcune delle conseguenze profonde che tale condizione reca in sé e pone di fronte a chiunque si dedichi, o voglia dedicarsi, professionalmente o anche solo amatorialmente, alla scrittura. 

L’ambiguità intrinseca del linguaggio verbale umano e il potere della parola

Il linguaggio verbale umano è, senza ombra di dubbio, data la stretta e vincolante correlazione con il pensiero, la più raffinata e complessa ed elaborata fra tutte le facoltà umane; parimenti la linguistica, disciplina scientifica deputata alla ricerca analitica attorno a caratteristiche, meccanismi, fondamenti del linguaggio stesso, è una materia di studi fra le più ostiche e senza mezzi termini difficili, intricate e faticose con le quali si possa aver a che fare (per farvi capire, i linguisti teorici si esprimono così: “Formalmente una grammatica G è una quadrupla [X,V,S,P] composta da: X: alfabeto dei simboli terminali; V: alfabeto delle variabili o simboli non terminali; Ssimbolo distintivo o scopo o ancora assioma della grammatica [appartiene a V]; P: insieme di coppie [v,w] di stringhe dette regole di produzione costruite sull'unione dei due alfabeti, denotate anche con {\displaystyle \alpha \rightarrow \beta }α → β. La stringa {\displaystyle \alpha }α non può essere vuota,{\displaystyle \beta } β invece può esserlo. Il linguaggio generato dalla grammatica è costituito da tutte le stringhe di terminali che possono essere ottenute partendo dal simbolo S e applicando una produzione alla volta alle forme di frase via via prodotte.”); essa, data l’ampiezza e pervasività del proprio campo di attinenza, si suddivide in diverse sottodiscipline interrelate spesso fra loro a vario livello a seconda del particolare punto di vista considerato; nell’ambito della linguistica teorica – sottodisciplina fra le più astratte e teoretiche in maniera dura e pura votata all’indagine attorno ai “perché” piuttosto che ai “come” del linguaggio – nonostante la risonanza e mediaticità di Noam Chomsky e del suo pensiero (per intenderci egli, padre della “grammatica generativa”, è per la linguistica una figura dalla caratura equivalente a quella di Stephen Hawking per la fisica), gli accademici sono ben lontani dall’aver raggiunto una teoria comune che descriva e svisceri esaurientemente l’argomento, il quale rimane un inesauribile campo di lotta teorico fra tesi tra le più disparate (grossomodo e generalizzando: le principali correnti teoriche sono quelle generative in faida aperta con quelle funzionali; chi lo desideri vi dia un’occhiata poiché si tratta di roba intricata e affascinante, ma, anche se dotato di un buon bagaglio culturale e/o di studi, si prepari ad affrontare la prova con un robusto corredo di pazienza, concentrazione e rimedi anti-emicrania); uno degli aspetti sul quale vi è un consenso universale però è il fatto che il linguaggio verbale umano è intrinsecamente ambiguo. Ma ciò che cosa significa?
In termini tecnici questa ambiguità è dovuta sia alla mancata corrispondenza biunivoca fra significante e significato in qualsiasi fra le lingue umane, sia perché l'ambiguità è un fenomeno intrinseco al “fatto linguistico” (o parole, cioè “atto linguistico individuale e irripetibile del parlante” nella definizione di Ferdinand de Saussure, fondatore della linguistica intesa in senso moderno), alla testualità e alla comunicazione. In altre parole ciò può essere spiegato facendo un paragone disgiuntivo con qualcosa di familiare più o meno a tutti la cui caratteristica saliente, all’opposto del linguaggio verbale umano, è l'assoluta non-ambiguità, ossia la matematica; come credo sia noto a chiunque abbia frequentato la scuola dell’obbligo, essa si basa sulla notazione numerica posizionale decimale – originaria dell’India, adottata poi dagli arabi, quindi diffusa in Europa e da lì nel resto del mondo – per la quale dieci simboli/segni numerali, a seconda della propria collocazione, rappresentano univocamente uno e un solo concetto quantitativo (il simbolo 1 significa “quantità singola”, 2 significa “quantità doppia”, 10 significa “quantità decupla” o “quantità singola di ordine superiore rispetto a quella di riferimento [cioè una singola decina corrispondente a una decupla unità], e così via); vi sono poi i simboli/segni aritmetici, i quali rappresentano univocamente, come le cifre, uno e un solo concetto, in questo caso di azione (+ fra due cifre significa “addizionare la quantità precedente alla successiva”, ecc.). In questo senso la matematica è un linguaggio non ambiguo poiché ad ogni segno/simbolo corrisponde un unico significato, e ogni sequenza e/o combinazione di tali segni/simboli può essere interpretata in una sola e unica maniera.
Il linguaggio verbale umano si avvale anch’esso, nella sua forma scritta, di segni/simboli unitari, cioè le lettere, le quali, un po’ come le cifre, rappresentano un solo e unico suono (ma fino ad un certo punto); ma i problemi, se così vogliamo chiamarli, nascono quando le lettere vengono aggregate a formare le parole, le quali rappresentano una determinata successione di suoni che possono assumere molteplici significati, anche molto diversi fra loro; ed è in questo terreno che germoglia e si radica l’ambiguità intrinseca del linguaggio verbale umano.  
L’esempio “pratico” più immediato e comune che mi venga in mente per esemplificarvi tale aspetto è relativo alla parola “accetta”: essa può riferirsi sia A) all’attrezzo simile alla scure ma di dimensioni più piccole, utilizzato prevalentemente per il taglio della legna, sia B) alla terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo “accettare”; il solo modo per (tentare di) riuscire a distinguere a quale dei due significati tale parola attenga è dato dal contesto in cui la stessa sia inserita, gli elementi del quale potranno fornire (o meno) sufficienti elementi interpretativi per discriminare quale dei due valori-significato sia da attribuire alla medesima sequenza di simboli. Dall’altro lato vi sono poi i sinonimi, parole le quali dovrebbero rimandare al medesimo significato attraverso una sovrapponibilità fra le stesse esatta e collimante che nella realtà però non vi è mai poiché ogni parola possiede e rimanda a sfumature di senso, significato e concetto leggermente differenti (un po’ come due dipinti identici realizzati da due mani diverse, o una sinfonia eseguita da orchestre diverse); non è un caso che i dizionari utilizzino il simbolo matematico ≈ (cioè “quasi uguale a”) per identificare sinonimi considerati parziali/distanti. Allargando per un momento il discorso, la questione diviene ancor più evidente nella traduzione, sia orale che scritta, da un linguaggio verbale geo-etnografico ad un altro, con tutte le complicazioni relative alla traslazione del significato originario salvaguardandone il più possibile l’integrità.
Ancor più comunemente, per calarci in una quotidianità più familiare che non tiri in ballo troppe astrazioni concettuali, l’ambiguità intrinseca del linguaggio può essere efficacemente sintetizzata dalla domanda/espressione/reazione in risposta ad un enunciato solitamente formulata nelle varie forme “in che senso?”, “che cosa intendi?”, “che vuol dire?” all’origine, se vogliamo, dell’intera ermeneutica (i.e.: in filosofia, metodologia di interpretazione dei testi scritti) intesa nel suo senso più ampio contemporaneo. L’equivoco, il fraintendimento che tutti abbiamo sperimentato, sia attivamente che passivamente, nasce proprio dalla molteplicità di significati, a volte parzialmente sovrapposti, a volte disgiunti, paralleli o contraddittori, di cui siano e/o vengano caricati, involontariamente o meno, periodi, frasi, e singole parole componenti le espressioni linguistiche verbali, sia scritte che orali, che ognuno di noi è obbligato ad utilizzare nella propria interazione con gli individui parte dell’insieme degli esseri umani che è – che lo si voglia oppure no – il mondo. Il/i significato/i delle parole, se vogliamo, azzardando un parallelo che potrebbe far storcere il naso a molti incrollabili razionalisti-deterministi, è simile a quell’ineffabile, inafferrabile, indefinibile qualcosa che viene chiamato “anima”, una presenza multiforme e poliedrica, intangibile eppure “essente” al di là di ogni tentativo di delimitazione e misurazione; parafrasando Whitman, la parola in sé è “vasta, contiene moltitudini”; e nell’incipit del Vangelo di Giovanni troviamo anche che: “In principio era il Verbo [Lόgos], il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.” Il potere insito nella parola, ossia nel linguaggio, è altresì ben noto all’umanità fin dalla comparsa di tale facoltà, e come tale è stato estensivamente adoperato per qualsivoglia scopo/finalità di tipo politico, religioso, economico, culturale, artistico, da Hammurabi a Derrida, da Gorgia a Hitler, da Machiavelli a Bush jr., e così via ad libitum (la storia dell’umanità, più che di azioni ed eventi, è fatta e intrecciata di parole).
L’ambiguità strutturale e ineliminabile del linguaggio, sapientemente e consapevolmente usata, concorre alla creazione di nessi, associazioni e cortocircuiti mentali dall’indubitabile effetto, che siano un trattato filosofico, un monologo bergonzoniano, una classica freddura umoristica o un lapidario slogan pubblicitario (proprio per tali effetti essa è attivamente e rapacemente sfruttata nel mondo del marketing per catturare e colpire l’attenzione del potenziale consumatore nell’eterna speranza di agganciarne la volontà a separarsi dai propri quattrini tramite arguti quanto più spesso crassi giochi di parole e doppi sensi rimandanti a funzioni corporali o all’attività sessuale); essa è ciò che rende la scrittura sia infinita che infinitamente fallace: moltiplica indefinitamente ciò che può essere espresso attraverso di essa offrendo nello stesso tempo il fianco a indefiniti fraintendimenti. Scienziati, giuristi, filosofi adoperano “gerghi” tecnici che tentino di contenerne e addomesticarne l’anguillesca scivolosità tramite la ricerca di un’esattezza il più possibile perfetta che non lasci spazio all’interpretazione (non è un caso che l’esempio riportato sopra del gergo dei linguisti teorici sia così vicino alla matematica pura, la quale trascende il mezzo verbale) fallendo più o meno costantemente in questo proposito; si pensi a come sono scritti i codici giuridico-legislativi e a come sulle ambiguità linguistiche residue nelle stesse proliferino gli avvocati abili nello scovare chiavi interpretative non palesi (dette anche scappatoie/buchi legislativi). Persino il sublime tentativo dell’atomismo logico wittgensteiniano espresso dal Tractatus logico-philosophicus di superare i problemi posti da questa caratteristica ancorando inequivocabilmente e una volta per tutte il linguaggio alla fattualità del mondo facendo del primo uno specchio esatto del secondo è crollato sotto il suo stesso peso, poiché, ironicamente, proprio a causa del tipo di linguaggio usato, tale opera ha generato un’incontrollabile moltitudine di interpretazioni minandone così immediatamente e definitivamente i risultati auspicati (anche se tale meraviglioso fallimento ha indiscutibilmente arricchito il panorama del sapere umano); tale tentativo di assoluta disambiguazione ha per così dire creato sì uno specchio di mondo ineccepibilmente logico e astratto, lineare e consequenziale, privo dei nonsensi logici attribuibili a ciò che, complice l’ambiguità del fatto linguistico, ribolle nel calderone della metafisica; ad uno sguardo un poco più attento ci si accorge che il Tractatus però non è uno specchio riflettente, bensì un eccezionalmente raffinato trompe l’oeil del tutto svuotato della grondante carnalità promiscua del mondo (umano) reale in cui ci troviamo tutti ad agire e con il quale, piaccia oppure no, ci dobbiamo confrontare (nota: Wittgenstein, che era ben lontano dall’essere un accademico rigidamente innamorato della propria produzione teoretica, si accorse abbastanza in breve di tutto ciò, e rielaborò molti aspetti del proprio pensiero nei manoscritti confluiti nelle Ricerche filosofiche di pubblicazione postuma). Gli scrittori, al contrario, e la Letteratura, proliferano su, e beneficiano di, questa caratteristica poietica intrinseca del linguaggio: è opinione abbastanza comune che ogni opera scritta possa essere ricondotta ad una ridotta manciata di tipologie nucleiche di trama, da cui l’adagio per il quale si sente affermare che ogni storia è già stata scritta; ma la sterminata moltitudine di titoli della biblioteca dell’umanità ben rappresenta, nel bene e nel male, l’infinità delle possibilità di raccontare qualcosa in maniera indefinitamente differente e nuova e rivelativa grazie proprio alla natura non univoca del linguaggio stesso e delle parole che lo compongono – i.e. grazie all’ambiguità intrinseca dischiudente l’orizzonte vertiginoso e sconfinato dell’interpretazione e di tutte le conseguenti ramificazioni e iterazioni riflessive/speculative.
Ogni libro è la tessera minuta di un mosaico infinito ancora in piena realizzazione che è in sé solo parte di ciò che è realmente essere degli esseri umani. La fortuna di chi si dedichi alla scrittura risiede in questa ambiguità, la quale però, come il poliedrico शिव (Shiva) dai 1008 nomi/attribuzioni, reca in sé un potenziale distruttivo che va oltre ogni velleità illusoria di controllo da parte dell’essere umano.

Incontrollabilità degli effetti di ciò che si scrive: l’esempio Salinger-Chapman-Lennon


Mi rendo conto di come tutto ciò vi possa apparire come un a latere astruso e fuori contesto, una digressione ombelichesca che non c’entra nulla con l’atto della scrittura e con una ricerca sulle ragioni dietro alla domanda “perché scrivere?” ma, credetemi, non è (del tutto) così; chi si dedichi alla scrittura e/o decida di riflettere e discorrere attorno ad essa, deve tenere presente e considerare che non è possibile, per quanta maniacale cura e attenzione si prestino, aggirare o controllare l’ambiguità del linguaggio verbale restando entro i confini dello stesso; parafrasando la Legge di Murphy, alla luce dell’ambiguità del fatto linguistico, si può affermare che “se un enunciato può essere frainteso lo sarà”. Per evitare ciò occorrerebbe trascendere la forma linguistica in modo da veicolare esattamente il pensiero, ma, se non nell’ambito della matematica o fisica teoriche limitatamente ai concetti ad esse pertinenti e separati da tutto ciò che è “umano troppo umano”, attualmente non è possibile; come esseri umani siamo nel e siamo il linguaggio verbale appartenente unicamente a noi in tutta la complessità di pregi, difetti, limiti, possibilità, problemi originati proprio dall’ambiguità di fondo di esso e che siamo costretti a dover affrontare.
Se la possibilità del fraintendimento è un fatto comunemente vero e accettato per le espressioni linguistiche in contesti di comunicazione più o meno breve e/o immediata, essa pare più remota per chi decida di applicarsi alla scrittura di tipo narrativo-intrattenitivo. A fronte dei testi sacri delle diverse culture-religioni mondiali, i quali, a causa soprattutto dell’estrema carica di componenti politiche, di interesse e di esercizio del potere/controllo, hanno dato adito a interpretazioni estremizzate e spesso contraddittorie dalle conseguenze terribili e sanguinose (Inquisizione e Jihad fra tutte), le opere letterarie potrebbero parere decisamente più inoffensive sul versante sia interpretativo che degli effetti dell’interpretazione stessa; dopotutto un romanzo o un racconto, (a parte ovviamente quelli intenzionalmente gravati da obiettivi propagandistici, politici, ecc.) sono quasi sempre semplici storie raccontate e per certi versi fini a se stesse. Eppure anche su questo versante l’ambiguità del linguaggio non è da prendere sottogamba poiché può avere, come anticipato sopra, effetti tragici. A questo proposito vorrei portare un esempio che forse pochi fra i miei coetanei e fra i più giovani dediti alla scrittura hanno presente, poiché risale all’ormai distante 1980: l’omicidio di John Lennon da parte di Mark David Chapman.
In breve: Chapman, ex guardia giurata, ex tossicodipendente, con precedenti di disordini mentali, über-fan dei Beatles, l’8 dicembre del’80, circa quattro ore dopo essersi fatto fare un autografo da Lennon (momento ritratto da Paul Goresh nella foto sopra), lo uccise sparandogli cinque volte di fronte all’ingresso del Dakota Building, dimora del cantante.
Bene, ma che cosa c’entra con l’ambiguità del linguaggio, ecc. ecc.?
Al momento dell’assassinio, Chapman aveva con sé una copia de Il giovane Holden di Salinger che si mise a (ri)leggere accanto al corpo di Lennon in attesa dell’arrivo della polizia; in seguito dichiarò di essere stato talmente influenzato dal libro al punto di voler effettualmente seguire il, e aderire al, modello rivoltoso, insofferente e “contro” rappresentato dal protagonista così com’è descritto nel libro, Holden Caulfield, proprio attraverso tale abominevole atto.
Prima di scuotere la testa e scrollare tale esempio come un’esagerazione gratuita o la classica eccezione che “non fa testo”, vi chiederei di riflettere sul fatto che tutto ciò è accaduto realmente. L’operazione ermeneutica di Chapman su un innocuo romanzo di formazione considerato un capolavoro letterario, sicuramente acuita da componenti psico-patologiche, lo ha portato a leggervi dentro, fra i vari significati del suo personale rapporto con il testo, la necessità di uccidere qualcuno; ed egli lo ha fatto.
Mi rendo conto di come quest’esempio sia estremo, uno di quei fuori-scala che si tende ad ignorare in favore di un rassicurante, solida, quantitativamente (e democraticamente) maggiore medietà statistica utilizzata per comprovare quasi ogni tesi o argomentazione che voglia attestarsi come verità o norma di ordine generale, così come mi rendo conto di come sia pressoché certo che Salinger non abbia avuto la minima intenzione di infondere nel romanzo un significato quale quello “lettovi” da Chapman (riguardo al rapporto fra opera letteraria e autore si aprirebbe qui un discorso più vasto tangente la critica letteraria e tutte le sue innumerevoli correnti dagli effetti godzilleschi sulla tenuta degli argini del presente post/articolo; fra le varie posizioni critiche, ciò che da esse viene definito come “intento autoriale” varia dall’essere fondamentale a essere del tutto irrilevante; ai fini del mio discorso relativamente all’esempio su cui lo stesso si fonda mi schiererò ad interim assieme alle prime); ma per onestà/integrità sia morale che intellettuale tali eccezioni devono essere tenute in considerazione nonostante la capacità che possono avere di minare sistemi e costrutti ritenuti validi e consolidati fino alla confutazione degli stessi. I sistemi, i costrutti e le generalizzazioni sono funzionali al mantenimento di un’impalcatura strutturale su cui si fonda il nostro rapporto teoretico, ermeneutico e pragmatico con il mondo che verrebbe distrutta dall’invalidamento insito nelle eccezioni; se il contenuto del libro salingeriano può essere ritenuto generalmente inoffensivo – al contrario di un Mein Kampf esplicitamente inneggiante alla violenza – e tale affermazione può essere considerata vera per una maggioranza statistica dei suoi potenziali lettori tale da poter essere tranquillamente equiparata ad un’universalità di fatto, l’evento Chapman-Lennon, pur mettendo teoricamente in crisi il giudizio di inoffensività del testo, non può di fatto invalidarlo, poiché altrimenti, per consequenzialità logica, ogni romanzo simile dovrebbe essere censurato/ritirato/vietato per prevenire l’eventualità di qualsiasi altro atto simile; e ancora similmente, di pari passo, al fiorire di reazioni/effetti/conseguenze d’eccezione, ogni tipo di espressione scritta sarebbe destinata alla medesima sorte in un imbavagliamento totale dell’espressione del pensiero, della cultura e della libertà (non dissimilmente da quanto già sperimentato dall’umanità fino a, di nuovo, tragiche e sanguinose conseguenze, con gli esempi di Socrate, Giordano Bruno, Galileo, Solženicyn, ecc.) e questa sarebbe davvero un’esagerazione.
Fatta questa considerazione, resta comunque il fatto che tale avvenimento pone delle riflessioni inaggirabili rispetto sia al versante dell’ambiguità intrinseca del linguaggio umano che a quello della consapevolezza di tale condizione/caratteristica fondamentale.

Responsabilità e consapevolezza, e l’intrinseco fallimento insito in ogni scrittura

L’intento dell’esempio riportatovi sopra è quello di mostrare quanto l’ambiguità ineradicabile del linguaggio e il potere di cui essa è circonfusa siano in questo senso potenti e temibili; è quindi necessario che chi si dedichi alla scrittura ne sia consapevole e maneggi questo aspetto instabile e trinitrotoluenesco con l’attenzione, la cura e la concentrazione che di solito si pensano riservate solamente a qualcosa pari alla microneurochirugia o al disinnesco di un congegno esplosivo.
Di nuovo un’esagerazione legata all’eccezione trascurabile menzionata sopra? Forse. O forse tutto ciò è per insistere sull’aspetto della scrittura a cui si tende a dare minor peso fra quelli solitamente presi in considerazione, ossia gli effetti che le parole organizzate in un testo possono avere sulle persone che vi si imbatteranno; e non mi riferisco al suscitare o meno piacere/ammirazione (che è un motore potente e nascosto nella maggior parte delle opere contemporanee di autori noti o meno noti o misconosciuti). Parafrasando lievemente i Pearl Jam, “some words when written can’t be taken back”: ogni parola, ogni espressione linguistica, per quanto intangibile, ha un peso – confermato banalmente dal senso comune – che produce effetti tangibili sul/i destinatario/i (si pensi alla a volte delirante censura modificatrice di termini linguistici avvertiti come offensivi operata in nome di ciò che viene definito politically correct).
Il linguaggio è una forma incarnata del pensiero, e noi, in quanto esseri umani aristotelicamente zôon politikòn, non possiamo trattenerci dall’usare il linguaggio per comunicare il nostro pensiero – sia una nozione o una riflessione – ai nostri simili; mentre la comunicazione orale è vincolata all’immediatezza temporale all’interno della quale l’elaborazione della stessa avviene, la scrittura al contrario può respirare nello spazio di tempo molto più ampio fra la formulazione del pensiero e la scelta della forma linguistica migliore per esprimerlo. I fraintendimenti/equivoci generati nelle interazioni orali sono inevitabili poiché legati all’assenza di spazio di manovra temporale entro cui poter decodificare e disambiguare l’enunciato verbale ricevuto per poi subito organizzare una risposta decodificabile che sia il meno ambigua possibile (ciò ovviamente non vale per quelle interazioni – ad esempio il corteggiamento – entro le quali una determinata forma di ambiguità alludente è a volte preferibile); l’atto scrittorio, al contrario, pone il soggetto nella posizione di ponderare quanto dovrà enunciare con la possibilità di rileggersi ed eventualmente correggere/modificare. Se è vero che si è responsabili delle proprie parole oralmente pronunciate pur tenendo presente una certa tolleranza rispetto agli effetti del contenuto delle stesse, ciò è ancor più vero – fino all’assolutezza del comandamento biblico – per quanto venga espresso in forma scritta proprio in virtù della possibilità data dal tempo di ponderare e verificare e correggere forma e contenuto del proprio testo, quale che sia (non è un caso che il linguaggio in forma scritta, grazie anche alla sua caratteristica di permanenza rispetto alla caduca volatilità di quanto pronunciato a voce, conservi tutt’oggi, pur nella società liquida baumanesca impermanente e inafferrabile [e irresponsabile] un’aura di sacralità-autorevolezza di cui alla forma variamente declinabile “è scritto su […]” per rafforzare la veridicità di qualcosa).
Ripeto: non è un argomento ozioso e inutilmente astratto, poiché questa ambiguità genetica produce effetti tangibili e spesso tragici nel mondo reale: l’interpretazione fuorviata del linguaggio umano è decisamente più comune di quanto si pensi di primo acchito, soprattutto nelle interazioni orali o para-orali (quali SMS, messaggi tramite Whatsapp o applicazioni simili, discussioni in qualsiasi chat, scambi di e-mail in ambiente lavorativo) fra soggetti; non credo di andare esageratamente fuori strada affermando che chiunque, nella cornice della comunicazione verbale, sia stato equivocato o abbia equivocato almeno una volta nella vita, andando a volte incontro a conseguenze inaspettate, dannose e dolorose senza volerlo – cioè senza averne l’intenzione (anche se per Samuel Johnson “Hell is paved with good intentions”).
Ogni individuo che decida di dedicarsi alla scrittura, soprattutto la produzione di scrittura per un pubblico, deve necessariamente procedere con la consapevolezza che l’ambiguità intrinseca del linguaggio verbale su cui la scrittura non solo è fondata ma esiste reca in sé costantemente e ineludibilmente un fallimento nascosto che ciascun testo avrà rapportato alle intenzioni dell’autore – i.e.: rispetto a ciò che voleva dire – con conseguenze potenziali assolutamente imprevedibili e pericolose; non è un caso che il detto reciti “la penna ferisce più della spada”, poiché la riottosità e selvatichezza nascoste nelle parole sono sempre presenti e in grado di danneggiare e colpire inaspettatamente. Per quanta attenzione e cautela si possano porre durante la scelta della successione di parole che andranno a comporre un testo, non sarà possibile calcolare anticipatamente tutti i possibili effetti su ciascuna delle coscienze che potrebbero leggere detto testo; e qui cade l’ombra del fallimento che pervade qualsiasi scrittura. Cionondimeno è responsabilità precisa e inderogabile di ciascun scrivente di porre la massima cura e la massima attenzione possibili durante l’intero processo, anche quando si desideri scrivere unicamente con e per leggerezza e/o divertimento. Ciò è duro, faticoso, difficile e sconfortante, e destinato inevitabilmente al fallimento – vi sarà sempre qualcuno che decifrerà un testo in un modo diverso e/o diametralmente opposto a quanto si è tentato di infondervi. Eppure consapevolezza e responsabilità a mio parere sono necessarie e fondamentali per chi decida di dedicarsi alla scrittura nella prospettiva di una diffusione pubblica del proprio lavoro, e dovrebbero rappresentare un equivalente intimo del Giuramento di Ippocrate per cui chiunque eserciti pubblicamente la scrittura. Come l’attenzione che si pone nel redigere un testo che sia privo di errori grammaticali, il più chiaro possibile e non inutilmente oscuro/prolisso come forma di rispetto verso il lettore (sia esso unicamente l’autore stesso in un momento posteriore o un lettore esterno) per evitare di gravarlo di fatica e difficoltà non necessarie nell’operazione di decifrazione dello stesso è una good practice afferente alla forma esteriore di che consideriamo “essere civili”, la cura consapevole dedicata al contenimento degli effetti dell’ambiguità del linguaggio potrebbe rivelarsi ed essere considerato come un’interiorizzazione autentica di un tale modo d’essere dagli effetti benefici bidirezionali nel rapporto soggetto-mondo (= gli altri), oltre a fornire una piattaforma prospettica più elevata dagli ulteriori innegabili benefici per l’articolazione e profondità della scrittura.  

BREVE INTERPOLAZIONE CALATA NELL’INIGNORABILE COGENZA DEGLI EVENTI GLOBALI DI CUI ALLA TERZA DECADE DEL MESE DI MARZO DEL 2020 APPARENTEMENTE FUORI TEMA MA CONNESSA AL NOCCIOLO PROBLEMATICO APPROFONDITO NEL PRESENTE POST/ARTICOLO

Questo post/articolo nasce al tempo in cui la sequenza di avvenimenti globale senza precedenti nella vita di pressoché tutti era ancora in nuce e confinata in una (per chi si trovi qui in Italia) remota regione geografica a distanza incommensurabile da qualsiasi preoccupazione più grave di un’alzata di sopracciglio. Dopo una piuttosto lunga riflessione ho deciso di attualizzare il post/articolo esponendovi un esempio legato a questo surreale presente per tentare di chiarire alcuni aspetti del concetto di responsabilità a cui mi riferivo nella sezione precedente: aggirandomi compulsivamente nel web per il periodico e masochistico damage report Picard-esco relativo alla pandemia di COVID-19, mi sono imbattuto in un articolo dal grosso titolo enunciante “Coronavirus, muore ragazza di 27 anni a Pesaro: è la vittima più giovane d'Italia”, il quale (assieme a innumerevoli titoli simili) mi ha suscitato – e sono certo di non essere il solo – un’impennata ansiogena supplementare improvvisa in un momento storico dalle circostanze già più che sufficientemente delicate e difficili e ansiogene; interpretando tale espressione linguistica in tale forma si desume che una persona molto giovane e, presumibilmente, data proprio l’età (generalmente equivalente ad uno status biologico non compromesso – o almeno io, a meno che non si tratti di una stella della musica rock/pop, associo inevitabilmente e automaticamente il dato anagrafico “anni: 27” a un individuo fisiologicamente sano) in salute è caduta vittima della malattia causata dal virus Sars-CoV-2, il quale, mentre scrivo questo addendum, dalle informazioni reperite prima dell’impatto con tale titolo sembrava risultare più aggressivo e pericoloso nei confronti di individui anziani o molto anziani affetti già da una o più patologie; subitaneamente il mio cervello produce la seguente stringa continuativa di inferenze logiche:
  • se una ventisettenne (= persona in salute) è morta, il virus è divenuto più aggressivo/pericoloso/fatale;
  • allora ancora più persone sono a rischio della propria vita essendo aumentata la mortalità della malattia;
  • se è aumentata la mortalità è aumentata anche l’infettività della malattia (so bene che non vi è necessariamente correlazione fra i due aspetti, ma spiegatelo alla zona limbica primitiva e irrazionale del mio cervello messa in moto dalla scarica di panico procuratami dal titolo di quell’articolo);
  • più persone allora si ammaleranno e moriranno, e più in fretta;
  • le infrastrutture sanitarie, produttive, governative si disgregheranno all’aumentare delle infezioni e dei decessi;
  • non vi saranno più acqua, cibo, elettricità, riscaldamento, né alcuna autorità a cui poter fare riferimento;
  • i legami sociali si deterioreranno fino a svanire nella brutale e sanguinaria realtà della logica di sopravvivenza;
  • il mondo finirà.
Aprendo l’articolo e leggendolo fino in fondo mentre il terror panico cerca di accecare l’ultimo bagliore di raziocinio rimastomi scopro, con immenso e colpevole sollievo (non trovo cosmologicamente giusto provare una simile sensazione di fronte alla morte di chicchessia), che questa sfortunata ragazza soffriva di gravi patologie pregresse. Ora, sono conscio del fatto che si dovrebbe leggere ogni articolo fino in fondo prima di farsi afferrare dagli effetti provocati da una lettura parziale, ma, come moltissime persone, per mancanza di tempo o semplice pigrizia mi limito (colpevolmente) a scorrere soltanto i titoli delle notizie per ottenere quel quantum d’informazione che sul momento mi pare sufficiente ricevere/immagazzinare prima di approfondirne eventualmente la lettura. Come si connette ciò con il discorso attorno alla necessità di avere responsabilità e consapevolezza di ciò che si scrive? Ebbene, pur nell’estremizzazione della mia personale reazione al titolo di quell’articolo a beneficio del punto a cui voglio condurvi, ritengo che esso, in tale forma scelta per la pubblicazione, sia, date le circostanze stringenti e delicate del momento, inutilmente sensazionalistico oltre che irresponsabile; attenzione: non sto affermando che quel titolo affermi il falso, poiché le informazioni enunciate corrispondono a fattualità; ma non si può negare che la determinata sequenza di parole scelta per veicolare  tali informazioni, proprio per l’ambiguità del linguaggio e le parallele implicazioni deducibili dalle stesse, sia non troppo sottilmente aperta a generare considerazioni/riflessioni dagli effetti ansiogeni negativi in un peculiare momento che non necessita di ulteriori aggravi psichici gratuiti. Lungi dal desiderio di fomentare sterili polemiche (nonostante Eraclito, con straordinaria preveggenza, scrivesse 2500 anni fa che “Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re”) ritengo di non essere completamente nel torto affermando che titolare con “Coronavirus: affetta già da altre patologie, muore a Pesaro a 27 anni la più giovane vittima d’Italia” avrebbe veicolato la stessa informazione senza il bonus en passant di un’indotta iniezione di panico supplementare gratuito, il quale, visto l’alterato equilibrio osmotico interiore instabile di ciascuno di noi, potrebbe non troppo irrealisticamente generare conseguenze, come affermato supra, potenzialmente imprevedibili e pericolose. Comprendo la logica per la quale chi produca qualcosa di scritto, e a maggior ragione un mezzo d’informazione giornalistico, debba cercare in tutti i modi di catturare l’attenzione di quanti più lettori possibile in vista di una visibilità possibilmente sempre più ampia alla quale corrisponda un ritorno economico che non sia meramente sussistenziale, ma, come ho detto e ripeto, ciò dovrebbe essere fatto, a maggior ragione in questa surreale primavera pandemica 2020, con consapevolezza e responsabilità quasi ippocratiche. 
Suona ridicolmente naïve appellarsi alla coscienza individuale in una realtà contemporanea nella e per la quale si è chiamati a divenire ed essere efficienti computatori produttivi solipsistici – a discapito degli altri, in molte occasioni – ma ora più che mai il clickbaiting e simili comportamenti rapaci sono tossici al limite del criminale, e personalmente li trovo moralmente sbagliati ed eticamente scorretti, né più né meno di chi aggiri in malafede la quarantena profilattica attualmente imposta per evitare allo stesso tempo sia il repentino diffondersi esponenziale del contagio e dei relativi casi potenzialmente fatali che, soprattutto, il collasso dell’infrastruttura sanitaria, trovatasi indebolita da anni di tagli finanziari ad affrontare una situazione i cui precedenti risalgono all’onirica e obliata polverosità storica di un secolo fa (si aprirebbero qui ampie praterie argomentative da esplorare in tutta la loro vastità e complessità topografiche, ma non è certo questa la sede per una ricognizione di tale portata e dalle implicazioni spinose).
Si provi ad immaginare cosa possa causare la lettura di un simile titolo a chi si trovi in questo momento a dover lavorare in supermercato, un’azienda manufatturiera, un negozio, o alla raccolta dei rifiuti (e così via), impossibilitato/a a poter rimanere nella sicurezza claustrale domestica, e ci si chieda: è davvero necessario gettare ulteriore combustibile sulle braci vive della paura quando si potrebbe gettarvi sopra, invece, un po’ d’acqua?

Il fallimento (consapevole) di un articolo e del suo autore

Consapevolezza e responsabilità mi pongono ora insistentemente nella condizione di dover riconoscere e confessarvi a occhi bassi e denti stretti qualcosa: il presente post/articolo ha preso spunto da, ed è nato parallelamente a, un post/articolo precedente – i.e. “Perché si scrive? Riflessioni incomplete in cerca del cuore pulsante dell’atto scrittorio” – sviluppato attorno alla ricerca di una possibile risposta a un semplice quanto fondamentale domanda, una di quelle umanissime Domande Importanti; ebbene, ciò che mi preme di confessarvi (soprattutto se siete arrivati qui prima di concludere la lettura del post/articolo summenzionato) è il mio fallimento verso l’obiettivo che mi sono posto come orizzonte, ossia ricercare una chiara risposta alla minuta e apparentemente inoffensiva domanda “perché si scrive?”, ammannendovi ugualmente una solfa abbastanza densa nella forma di una ricerca lunga qualche migliaio di parole che già sapevo fallimentare in partenza. La semplicità di tale domanda – come di tutte le Domande Importanti – diviene inversamente proporzionale ai punti di vista sui quali la domanda stessa si innerva esattamente nel momento in cui si tenti, tramite un’indagine tentativamente approfondita, un approccio ad una risposta che abbia un minimo di significato e verità e completezza che riesca ad andare oltre la visione monocromatica data da preconcetti, limitatezza di visione o interesse che possano inquinare e condizionare una ricerca in qualche modo autentica intorno a ciascuno di tali innervamenti; non solo, ma tale indagine/ricerca sarà comunque condizionata e viziata sia dalla fallibilità del soggetto che si pone la domanda stessa che dall’impossibilità di trascendere il mezzo linguistico intrinsecamente ambiguo e aperto alle interpretazioni necessariamente utilizzato per esplicitare e rendere decodificabili e fruibili i risultati di questa ricerca di una risposta. L’improvvisa ampiezza della portata della domanda in quest’ottica rende inconcepibile oltre che impossibile una risposta unica, univoca e inequivocabile, ben confezionata e immediatamente consumabile in tutta la sua fragranza; la sola cosa che potrò tentare di fare sarà portare alla luce alcuni aspetti di riflessione in ogni caso incompleti, limitati e sfigurati dalla scelta (l’atto della scelta uccide ogni altra possibilità nell’attimo in cui pone il proprio indice su una di esse) di determinate espressioni linguistiche veicolate tramite una quantità limitata di parole in ogni caso ambigue per quanta attenzione possa porre nella scelta (di nuovo), nell’utilizzo e nell’ordine di dispiegamento delle stesse sul foglio/videoschermo; tale discorso, assieme alla confessione contrita e imbarazzata del fallimento già notomi a priori, vale anche per il presente post/articolo che vi siete sorbiti fino a qui. E la consapevole certezza del fallimento a prescindere in questo senso è applicabile anche ad ogni parola, riga o testo io abbia mai prodotto sia prima di questi due post/articoli, sia che a quelli che produrrò in qualsiasi forma in futuro; è inevitabile.
Al cospetto di una simile rivelazione potrei lasciarmi cadere nell’abulia di uno sconforto rinunciatario che abortisca ogni tentativo di scrittura da qui in avanti (e qualcuno, a fronte dei miei scritti, penserà forse che ciò sia caldamente auspicabile); oppure arroccarmi nell’inviolabilità di una blissful ignorance tale e quale a una tuta hazmat che mi isoli completamente da qualsiasi dubbio/riflessione cosicché io possa, al sicuro e in santa pace, espettorare in forma scritta qualsiasi cosa mi passi per la testa senza che nulla e nessuno me lo impedisca; dopotutto, data l’inviolabilità del libero arbitrio e della libertà di parola personali – entro i limiti di legge democratici – posso esprimere ciò che più mi aggrada nel modo che più mi aggrada. Ritengo però che entrambi gli atteggiamenti siano nocivi, infantili e stupidi fino all’autolesionismo. La ricerca continua dell’esattezza della parola in tutti gli aspetti formali ed estetici, contenutistici e consequenziali, metafisici e morali, è, almeno per me, la sola via percorribile, la sola via autenticamente critica e umana, pur nell’incessante rincorsa verso un traguardo a cui non si sarà mai in grado di giungere; è, pur nel fallimento annunciato, la sola maniera che possa debitamente rispettare sia l’arcano, sacrale e incontrollabile potere insito nella parola, che, più di ogni altra cosa, tutti gli esseri umani che nelle mie parole scritte possano imbattersi. 

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